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La Porsche è italiana


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Prima c’erano “alfisti” e “lancisti”: chi guidava una era quasi obbligato a disprezzare l’altra. Senza discutere. Oggi, complice anche lo sviluppo delle tecnologie, sempre più comuni e “intercambiabili”, i toni polemici tra chi predilige un marchio piuttosto che un altro si sono di molto smorzati. Sopravvivono, tuttavia, isolati “focolai” di partigianeria. Ecco che, a volte chi guida una Porsche lo fa con così tanto orgoglio (...e beato lui...), che considera inferiore qualsiasi altra automobile. Soprattutto se non è tedesca.

La realtà, però, è governata da leggi universali e, come il Principe Antonio De Curtis saggiamente ci insegnò, le differenze in campo “sociale”, se troppo acute, prima o poi scatenano meccanismi livellanti. A fungere da “livella”, nel caso di porschisti troppo orgogliosi, è la Storia, che ci insegna un aneddoto ormai dimenticato, ma molto significativo.

Nel ’45, alla fine della seconda “Grande Mattanza”, Italia e Germania erano praticamente distrutte. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto in Austria e Germania, le italiche genti inconsciamente riuscirono a tamponare i danni, ribellandosi per tempo al Regime e limitando così le rappresaglie alleate al “minimo indispensabile” (sia perdonato l’apparente cinismo). Mentre le industrie tedesche erano ferme per volontà degli americani, in Italia si ricominciava lentamente a marciare. C’era già qualcuno che pensava alle corse a alle granturismo: Piero Dusio, classe 1899, costruttore. Era uno dei cittadini più influenti della Torino degli anni ’40 e, se Agnelli possedeva tutta la Torino alla destra di Piazza San Carlo, Dusio era proprietario dell’altra metà della città.

Nel ’44 questi fondò la Compagnia Industriale Sportiva Italia, il cui acronimo “Cisitalia” in pochissimo entrò nell’Olimpo dei costruttori di automobili. Nata con l’intenzione di gestire impianti sportivi, la Cisitalia aveva altri fini: il mondo dell’Automobile e le corse. Ben presto Dusio (che si avvaleva del contributo di nomi storici dell’Automobismo, come Dante Giacosa e Piero Taruffi), rilevò dalla Aeritalia, uno stock di tubi al cromo-molibdeno, ideali per produrre vetture da corsa e granturismo, resistenti e leggere, con meccanica Fiat.

La prima Cisitalia “sport”, la D46, vide la luce nel settembre del ‘46 al circuito del Valentino. La prima Cisitalia granturismo esordì l’anno successivo e montava il vecchio 1089 cc della Balilla 1100, ovviamente su un telaio tubolare. La 202, questo il nome della vettura, una delle più belle opere di Pininfarina (un esemplare è conservato anche al museo di arte moderna di New York), fu prodotta fino al 1953 in più varianti, tra alcuni avanzati studi aerodinamici e l’ultima con un motore marino da 2800 cc. Negli anni affiancarono la 202 altri modelli, meno noti e poco caratterizzati. Intanto, già dal ’49, la corsa quasi si arrestò, l’azienda entrò in amministrazione controllata e Piero Dusio si trasferì in Argentina dove, grazie agli aiuti del governo locale, fondò la Autoar e poi la Automobili Cisitalia, per produrre vetture utilitarie (tra cui la NSU Prinz e le Fiat 600 Multipla su licenza).

La Cisitalia, gestita dal figlio Carlo, sopravvisse con fortune alterne fino al 1953. Seguì un lungo periodo di agonia, in cui l’azienda fu ridimensionata a semplice officina di elaborazioni di vetture Fiat. La fine arrivò nel ’64. Lo stesso anno cessò definitivamente anche l’avventura argentina di Piero Dusio.

Questa breve digressione è necessaria per comprendere quanto la Porsche debba essere grata alla famiglia Dusio.

I fatti che legano i Porsche alla Cisitalia si svolgono nel triennio ‘46-’48, il periodo d’oro dell’atelier italiano. Nel 1946, Dusio, convinto delle ottime prospettive della propria azienda, decise che i tempi erano maturi per insidiare lo strapotere dell’Alfa 158, in quegli anni praticamente invincibile. L’intenzione era di realizzare una vettura da Gran Premio che potesse surclassare la mitica Alfetta. Il progettista ideale sarebbe stato Ferdinand Porsche, che era emerso negli anni precedenti per aver realizzato le famosissime Auto Union, oltre alla KdF (la Vokswagen) e la derivata anfibia militare. Purtroppo l’attività dei Porsche era ferma per volere degli Alleati, ai quali premeva controllare in toto l’attività industriale tedesca: furono requisiti macchinari, attrezzature e il professor Ferdinand arrestato e condotto in Francia, in compagnia del genero Piëch, da dove poteva “godersi una vacanza innocua e coatta” a spese degli Stati Uniti.

In seguito ad una fitta corrispondenza, Piero Dusio potè incontrare Ferry Porsche (figlio dell’esiliato Ferdinand), all’epoca trentasettenne, e la sorella Louise, madre dell’ex capo supremo di Volkswagen, Ferdinand Piëch. L’incontro era in provincia di Bolzano. Per rendersi conto di quali erano condizioni economiche del magnate piemontese e quali, invece, quelle dei Porsche, è sufficiente ricordare che mentre Dusio arrivò con la sua enorme Buick, i Porsche arrivarono in treno...

L’accordo verbale fu subito raggiunto e all’inizio del 1947 si arrivò alla firma.

Lo studio Porsche otteneva così la sua più importante commessa, dopo i lavori svolti durante il decennio precedente. Porsche si impegnava a fornire alla Cisitalia il progetto di due vetture, una Sport e una da Gran Premio, di un trattore agricolo (e in casa avevano già il progetto del Volkstraktor) e di una turbina. Dusio s’impegnava al pagamento di tre rate quadrimestrali, da 400.000 scellini, da 10 milioni di lire e da 11 mila dollari americani (comprensibile, vista la situazione economica, il ricorso a tre valute differenti). Poi, con una seconda scrittura, la Porsche si impegnava ad offrire assistenza tecnica a fronte di un pagamento di ulteriori 500.000 scellini e del mantenimento (vitto, alloggio e trasferte) per dieci tecnici, tra cui Rudolph Hruska, il futuro papà del progetto Alfasud, e Carlo Abarth.

Dusio, per quest’avventura, che di fatto equivaleva ad un salto nel vuoto, investì tutto il suo patrimonio, dichiarando più volte “mi rovino, ma faccio la Gran Prix”. La Porsche, con le entrate finanziarie ottenute potè “pagare” la scarcerazione del professor Ferdinand e dare il via alla ricostruzione. La vettura da Gran Premio, oggetto principale dell’accordo, denominata 360 e disegnata da Ferry Porsche, fu pronta nel ’49, quando già la Cisitalia era in forte crisi. Dusio aveva investito tanto nei Porsche, sicuro del successo delle entrate agonistiche e del successo della coupè 202. Purtroppo proprio quest’ultima, esauritasi l’euforia post-bellica, ben presto non trovò più acquirenti, facendo crollare tutti i piani di sviluppo futuri, ma non il prosieguo della sperimentazione, sostenuta dalla caparbietà dell’imprenditore piemontese.

La 360 era una GP a telaio tubolare, con motore posteriore, spinta da un 1500 V12 con doppia sovralimentazione volumetrica, cambio con innesti sequenziali e trazione integrale inseribile. Sulla carta sarebbe stata invincibile, vista anche la strabiliante potenza del piccolo plurifrazionato: oltre 500 cavalli misurati al banco. Furono approntati due telai e due propulsori, ma ancora nel 1950 la 360 era ancora allo stadio sperimentale.

L’anno dopo Piero Dusio emigrò in Argentina con uno dei due esemplari e il sogno, mai realizzato, di superare il record dell’ora per la categoria 1500. Quello che seguì, per la Cisitalia, è stato scritto in alto.

I Porsche, con quanto ricavato da questo progetto poterono risalire la china, risistemarsi finanziariamente e rimettere in piedi le proprie officine. Non è un caso che tra il 1946 e il ’48 fu definito lo studio 356, il cui primo esemplare, contrassegnato dal numero 356.001 fu ultimato proprio nel 1948: era la famosa 356, la madre di tutte le Porsche costruite in serie, prossima alla presentazione al Salone di Ginevra. Così, mentre la Cisitalia moriva, nasceva la Porsche.

Sic stantibus rebus, ogni volta che sentite girare il boxer di una 911 ricordate che senza il piemontese Piero Dusio e la sua Cisitalia, non ci sarebbe stata nessuna 356, nessuna 911 e nessun boxer tanto melodioso...

Sebbene questa vicenda sia quasi caduta nel dimenticatoio, la famiglia Porsche non ha mai rinnegato quanto sia stata importante per le proprie sorti la Cisitalia 360: uno dei due esemplari, quello che a suo tempo emigrò in Argentina, dopo qualche passaggio di mano, è conservato come una reliquia nel museo della Casa Tedesca, mentre l’altro è finito nel museo inglese di Donnington. Non hanno avuto nessuna carriera agonistica, ma sono le poche testimonianze tangibili di una Casa che, seppur dalla vita brevissima, ha dato tanto all’Automobilismo...

Fonte Omniauto.it

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