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Brera nel 2050 (1° capitolo-->lungo)


TORRE

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Ho cercato il vecchio topic aperto da me ma non l'ho trovato, quindi apro questo topic nuovo per postare la bozza (quasi) completa del primo capitolo del romanzo che stro scrivendo...siate clementi, che molte cose sono da sistemare (prime fra tutte i nomi dei personaggi)

I libri bruciavano ancora sui loro roghi, accatastati su alte pire informi. Indifese pagine venivano lambite, arse e riarse da multiformi lingue fiammeggianti, che durante il loro macabro pasto, gettavano cupe ombre sulla strada e sulle pareti degli edifici circostanti. Parole, paragrafi, pagine e capitoli ed ancora saggi, romanzi, poemi e prose, erano uniti nel medesimo destino di trasformazione in nera cenere, sparsa nell’aria pesante e fredda da impietose raffiche di vento.

I roghi ardevano fitti nella notte, rischiarandola; attorno ad essi danzavano gli uomini, come immersi in una grottesca danza tribale. La carta bruciava e moriva, ai piedi di alti grattacieli in cui erano incastonati grandi schermi ad alta risoluzione simili a splendenti totem tecnologici. La cenere si spandeva con moti irregolari sulle strade, larghe strade centrali su cui erano stati deposti numerosi dischi metallici proiettanti verdi scritte tridimensionali, accompagnate da slogan e suoni registrati, soverchiati a loro volta dalle grida della folla rumorosa che continuava a gettare libri nel fuoco, ridendo e godendo di quel gesto che andava ripetendo ormai meccanicamente da ore.

I roghi ardevano fitti nella notte, e la punteggiavano di rosso ed arancio, ed erano chiaramente visibili dall’alto dai numerosi elicotteri della polizia, che come colossali libellule metalliche giravano in tondo, controllando attentamente la scena. Eterogenei gruppi di uomini e donne attaccavano ad ondate le linee della polizia, che in tenuta antisommossa, respingeva gli assalti senza troppa violenza, a volte indietreggiando, a volte avanzando. Regolarmente, annunciati da un suono secco si udivano i lanci di gas lacrimogeno, intervallati dai potenti getti d’acqua degli idranti. Numerose auto erano state incendiate e sui loro cofani erano state improvvisate altre pire di libri.

Le porte di una grande biblioteca giacevano schiantate al suolo, divelte dai battenti, ed una scia di distruzione entrava ed usciva all’esterno dell’edificio.

Roland si avvicinò allo schermo lentamente e fissò le immagini epurate dall’audio ancora una volta. Osservò la violenza, osservò la furia, osservò il fuoco, poi sussurrò: “Spegnere”. Il buio tornò nell’ampio studio; in breve i suoi occhi si riabituarono all’oscurità, e comparvero i contorni del mobilio della stanza. Le dita si trattennero sugli scaffali della sua libreria, entrarono in essi, accarezzarono i libri, scivolarono sulle vetuste ed oramai arcaiche rilegature. Attraversò silenzioso la stanza, con lunghi passi, fino alla grande vetrata, ed appoggiò la mano destra ad essa, esercitando una ferma pressione. Il vetro era prevedibilmente freddo e liscio e trasparente. Oltre esso, dal buio della notte appena trascorsa, la Città riprendeva vita: i colori scuri andavano sempre più schiarendosi, le luci artificiali erano sempre più fioche, punteggiavano gli edifici e le strade, in un susseguirsi di colori che variavano nel tono e nell’intensità. Allargò le dita della mano, poi la spostò dal vetro, ritraendola verso il petto e tornando a concentrarsi sulla camicia, ancora sbottonata. Le dita indugiarono sui bottoni, lavorarono su di essi, allacciandoli con cura. I polpastrelli sfiorarono appena il bianco tessuto; risalirono poi sul colletto, che sistemarono con precisione. Il flusso di auto nelle strade era aumentato notevolmente, puntuale come l’andare e venire delle maree. Gli occhi di Roland abbracciarono di nuovo il panorama, immaginando la rugiada rappresa sulle chiome delle conifere, disposte in lunghe file ai lati delle strade che contornavano come vegetali colonne. Scostò lo sguardo, quando intravide l’arrivo di un dirigibile pubblicitario dagli sgargianti colori. Volgendo le spalle alla vetrata indossò la giacca, scuotendo nervosamente le spalle e ripetendo il gesto di ogni mattina, che ribadiva l’apatia provata per quel genere di abbigliamento. Metodicamente controllò l’orologio, la presenza del PDA nella tasca interna della giacca ed infine raccolse le chiavi di casa e dell’auto dal basso tavolino davanti alla poltrona anatomica, abbandonata in disordine nella posizione letto. Si chinò, prese la borsa dal pavimento e controllò il suo interno; la richiuse con un gesto stizzoso e si rialzò, avvicinandosi agli scaffali della libreria. Le sue dita saltellarono agili sul tastierino numerico e poco dopo, col consueto ronzio metallico, pesanti scorrevoli lastre in vetro blindato si posizionarono a difesa dei libri. Con un suono secco, il mobile fu definitivamente sigillato; infine il vetro si oscurò, trasformando la libreria in un unico blocco nero addossato alla parete, simile ad un sinistro, mistico monolite. Le labbra di Roland si contrassero, abbozzando un sorriso; alzò il viso nel silenzio, ed ad esso aggiunse: “Oscurare”. Il vetro si oscurò, tutta la vetrata che costituiva quattro dei lati del grande monolocale divenne puro ebano. Alle sue spalle, immota e scura, l’unica parete costruita in maniera tradizionale, assieme al pavimento. Prese la borsa, piegò il soprabito sul braccio sinistro e si avviò verso l’uscita. La porta sibilò appena, aprendosi e chiudendosi; scatti metallici la sigillarono ermeticamente, un ticchettio elettronico avvisò dell’attivarsi dell’allarme. Nel fresco del primo mattino, Roland passeggiò sul terrazzo, osservando con la coda dell’occhio la superficie piatta del tetto del grattacielo sul quale era stato costruito il grande monolocale che era divenuto la sua casa in quegli ultimi tormentati anni. L’altezza del palazzo lo avvicinava alle stelle, che comunque non poteva vedere, giacché erano annegate, cancellate ed esiliate dallo sfavillante inquinamento luminoso. Scese una ripida rampa di scale, fino ad arrivare in un piccolo atrio, sbarrato da una porta, che aprì con l’apposita chiave. La porta si spalancò su un corridoio, fiocamente illuminato, disseminato di porte che davano su altri appartamenti, su altri piccoli mondi personali; lo attraversò silenziosamente, per giungere ad uno degli ascensori in cui entrò dopo un attimo di attesa. La cabina iniziò silenziosamente a scendere, fino al piano sotterraneo dei garage.

Le rampe erano deserte e silenziose, nessun auto usciva quieta dal suo vano. Roland osservò le saracinesche scorrevoli abbassate, e cercò la sua, che riconobbe immediatamente dalle scritte tracciate vandalicamente con bombolette spray. Segni di morte erano stati dipinti con toni di verde e rosso; scarabocchi ricoprivano l’intera superficie metallica. In quel giorno le intimidazioni erano diventate più sofisticate: un piccolo proiettore olografico di forma circolare era stato attaccato ad una delle pareti a fianco, e sfavillando proiettava un enorme slogan nella penombra, uno slogan scritto con lettere infuocate, che cambiano colore e luminosità come se fossero veramente viva fiamma, muovendosi e roteando con traiettorie casuali: “Bruciate un libro, salvate un albero”. Roland sogghignò staccando il proiettore dalla parete e spegnendolo; lo lasciò rumorosamente cadere a terra e poi lo maciullò con cura sotto i piedi, gettandolo ad opera compiuta in un cestino della spazzatura, spezzato in più parti. Aprì il garage ed osservò la sua rossa auto, invisa alla maggior parte della popolazione, nonché ai suoi coinquilini poiché alimentata con un antiquato ed inquinante carburante. Roland entrò nel garage ed osservò i massicci scaffali blindati ed ignifughi in cui erano custodite le taniche di benzina. “Ho fatto il pieno ieri sera. Sono a posto.” Pensò aprendo il veicolo con il telecomando; salì a bordo, inserì la chiave nel quadro e premette il pulsante di accensione. Il motore si destò, un rumore soffuso e delicatamente metallico riempì lo stretto spazio del box; accese le luci di posizione e poi partì, con tranquillità. Alle sue spalle, le porte del garage si chiusero e si serrarono, mentre con un sibilo il sistema anti-intrusione si attivava, facendo lampeggiare la console di comando annegata nel cemento della parete immediatamente lì accanto. “Guarda cosa deve fare uno per possedere una macchina a benzina: non bastano le tasse, i disincentivi e tutto il resto. No, ci si mettono anche gli ambientalisti con i loro slogan, che sono contro tutto…” Come ogni giorno, i soliti pensieri mattutini si affacciarono nella sua mente, stendendola e preparandola per la giornata lavorativa. Percorsa la lunga rampa, Roland uscì infine all’aria aperta, ed accelerò lievemente, immettendosi nel traffico; si fermò quasi subito, bloccato da un semaforo e ne approfittò per accendere la radio: “La tensione negli ultimi giorni non accenna a diminuire. Dopo la morte di Tom Volton, l’estremista ambientalista ucciso per autodifesa dall’agente Pinco Pallino, si sono moltiplicati gli episodi di violenza ed intolleranza. Due biblioteche sono state assaltate e distrutte. Le frange più estreme del movimento ambientalista hanno ribadito che le azioni di forza contro il commercio di libri su supporto cartaceo aumenteranno. I presidii nei negozi che vendono ancora libri al dettaglio sono in costante aumento, presidii che sfociano spesso nella distruzione dei negozi stessi e nell’aggressione agli eventuali clienti. Frattanto la situazione si complica, perché tra tre giorni lo scrittore RICHARD presenterà al Palazzo dei Congressi il suo nuovo libro. Lo scrittore, famoso per i suoi romanzi, ma anche per la sua travagliata vita, è uno dei pochi che ancora pubblica su carta, attirandosi contro le ostilità di diversi intellettuali ma soprattutto di esponenti della variegata galassia ambientalista. La presentazione del suo nuovo libro, sarà quindi una dura prova per le forze di sicurezza. Il capo della Polizia ha dichiarato che non saranno tollerati atti di violenza e di guerriglia urbana come quelle dei giorni scorsi, e che è intollerabile che nessuna forza politica abbia preso nettamente le distanze da…” Roland spense la radio per concentrarsi più approfonditamente sulla guida, ed uscendo dalla corsia di immissione nella superstrada accelerò. Filari d’alberi fiancheggiavano le sei corsie, lontano, sull’orizzonte, si stagliava l’enorme grattacielo della polizia urbana, che appariva nel grigiore mattutino come un tozzo ago conficcato a fondo nella terra, un tozzo ago verso cui era diretto.

Il traffico era scorrevole, pochi e veloci veicoli, che sibilavano appena sull’asfalto perfetto e liscio. La sua auto era l’unica a rumoreggiare allegra, l’unica a non descrivere monotone traiettorie imposte dal sistema di guida automatico attraverso i sensori integrati nell’asfalto stesso, l’unica non dotata della moderna propulsione elettrica. Rapidamente raggiunse la sua destinazione, e dopo i consueti controlli all’ingresso, iniziò ad attraversare il ponte, rigidamente sorvegliato, che permetteva l’accesso al Dipartimento Centrale di Polizia. Mentre lo percorreva, Roland osservò il particolare e pregiato panorama su cui la solida struttura del ponte si ergeva: alberi ed alberi, chiome intrecciate, e siepi: una foresta da cui nasceva un altissimo e moderno grattacielo, simile ad un moderno faro su un mare verde. Tale edificio era massiccio, percorso da vetrate nere, di pianta dodecagonale e dotato di gigantesche piattaforme per l’atterraggio di veicoli di vario genere sia sulla sommità, sia sui lati possenti, ove queste erano solo piccole protuberanze appuntite, punteggiate del rosso e del blu della segnaletica luminosa. Continuamente elicotteri della polizia ed altri mezzi volanti si avvicendavano sulla colossale struttura. Roland rallentò, seguendo le indicazioni di due tabelloni elettronici, prima di entrare in una corta galleria che analizzò la sua auto, prima di concedergli il definitivo accesso al parcheggio. Fermò l’auto poco dopo, in una piattaforma quadrata delimitata da un lucente contorno verde e scese, seguendo un percorso delimitato da una linea biancastra lampeggiante. Quando l’uomo fu sufficientemente lontano, i contorni luminosi del quadrato si colorarono di giallo, assieme ai contorni di altri quadrati , che costituivano l’ampia superficie del parcheggio. Un suono secco avvisò il proprietario dell’auto che i fermi di sicurezza avevano appena agganciato le ruote del suo veicolo e di tutti quelli presenti. Le piattaforme quadrate si misero in moto sui loro meccanismi ronzando debolmente: ogni posto auto era un tassello di un colossale puzzle meccanico in grado di scorrere in diverse direzioni, ottenendo l’automatica sistemazione ottimale delle auto nel parcheggio. Roland osservò le piattaforme, ora contornate di rosso, muoversi, scorrere avanti ed indietro, sistemarsi secondo complicati schemi, finché il suo potente coupè non sparì alla sua vista, confuso fra le sagome metalliche delle altre auto. Dal soffitto, si reclinò un ampio display in cui lesse il codice assegnato alla sua vettura; contemporaneamente davanti ai suoi occhi, una nuova piattaforma fu collocata davanti all’ingresso, pronta a ricevere l’auto del prossimo visitatore. Il luminoso contorno verde si accese immediatamente, ed in quel momento decise di dirigersi verso i piani superiori. L’ascensore lo accolse cortesemente, con una voce metallica; un numero sul pannello dei comandi lo informò che si trovava nella cabina numero 23 in rapida salita verso il settantesimo piano. A destinazione raggiunta, le porte si aprirono con una certa lentezza scorrendo e sibilando. Roland si orientò rapidamente nei corridoi, dirigendosi presso l’ufficio accettazioni. Passò al sonnolente impiegato il suo documento d’identità, ed egli senza una parola fece scorrere nel lettore la scheda plastificata, controllando i dati sul suo monitor. Annuì distrattamente, restituì il documento e finalmente parlò: “Stanza D. Sezione 4, Zona interrogatori a bassa sicurezza. Per giungere lì deve percorrere…” Roland lo interrupe bruscamente dicendo: “Conosco la strada, grazie.” L’uomo si congedò cordialmente e s’incamminò verso la stanza D; la raggiunse rapidamente, ma esitò un istante prima di entrare: diversi ricordi attraversarono la sua mente mentre fissava la lettera “D” dipinta con tratti squadrati color blu oceano su una blindata porta scorrevole. Infine si decise, azionò l’apertura e spostandosi di lato, s’infilò nella stanza prima che la porta completasse il suo scorrimento. L’arredamento era scarno e freddo: un solitario tavolo grigio, dalle gambe scheletriche accompagnato da una coppia di sedie, realizzate nel medesimo stile. Una era vuota, l’altra era girata verso la porta, occupata da un corpulento ufficiale di polizia il cui giubbotto era disordinatamente appoggiato alla schienale della sedia cosicché una delle maniche si trovava a toccare terra. Le tozze gambe erano distese e rilassate, le mani paffute reggevano goffamente la custodia trasparente di un disco dati. “Salve. Lei deve essere l’avvocato di PINCO PALLINO. Io sono il sergente Tanks, sono il suo superiore. Sono assolutamente convinto dell’innocenza del mio ragazzo, e spero che lei sia veramente bravo in queste cose. Ma ho letto e sentito che lei è piuttosto bravo, ed io voglio crederci. D’altronde anche lei non è stato per qualche anno da questa parte? Lei sa cosa si prova giù nelle strade, lontano da un comodo ufficio e dall’intontimento dato da 14 ore davanti ad uno stupido monitor. Comunque io sono qua per consegnarle la registrazione del casco di PINCO PALLINO. La qualità della registrazione non è eccelsa, ma secondo me si capisce la dinamica dei fatti. Ma non voglio annoiarla, ci pensi lei a difendere il mio ragazzo. E’ un po’ una testa calda, ma è una brava persona. Ecco, io ho parlato troppo. Tenga il disco che me ne vado.” La voce del sergente era roca ed impastata. L’avvocato si avvicinò e gli strinse la mano prima di prendere il disco e di riporlo nella sua borsa, che a sua volta lasciò sul tavolo. Il sergente si alzò lentamente, si rimise il giubbotto, e con un’andatura poco agile s’avviò all’uscita, ed in quel momento arrivo PINCO PALLINO, cliente suo malgrado di Roland. Il poliziotto era giovane, non troppo alto, non appariscente. I due uomini si scambiarono i convenevoli, poi si diressero al tavolo. PINCO PALLINO prese posizione per primo, con lo sguardo basso ed occhi insonni infossati in un viso senza barba e rughe, segnato profondamente dalla tensione. Anche l’avvocato si sedette dal suo lato, allungò le mani verso la borsa sul tavolo, la aprì ed estrasse un block-notes su cui era attaccata una penna; iniziò a sfogliarne alcune pagine, tutte fittamente scritte finché giunse ad un foglio bianco; staccò la penna dalla copertina cartonata color porpora e disse: “Possiamo cominciare” Il poliziotto lo guardò stupito. “Carta? Una scelta inusuale ed impopolare.” “A me la carta piace, ma non siamo qui per parlare di questo.” “Si lo so.” PINCO PALLINO rimase silenzioso, incrociò le mani sul tavolo e disse: “Ha ricevuto copia del video del casco?” “Si. Me l’hanno appena consegnata. La visionerò più tardi con calma. Ora vorrei farle una domanda: perché ha voluto che il nostro colloquio si svolgesse proprio qui?” “Non c’è un motivo particolare…è un posto come un altro.” “Come vuole…spero che questa stanza sia pulita.” “Pulita? In che senso?” Roland aggrottò le sopraciglia ed osservò l’interlocutore con uno sguardo d’intesa. “Nel senso che lei può immaginare. Ma non si preoccupi. Non ci riusciranno.” Mentre diceva queste parole, l’avvocato diede un paio di lievi pacche alla sua borsa. “Ma ora” Continuò “E’ il momento…parli ed io l’ascolterò e prenderò nota. Non la interromperò più; mi dica quello che vuole, mi dica qualsiasi cosa che lei ritiene rilevante per questa vicenda. Prego.” Le dita delle mani del poliziotto, appoggiate sul tavolo, si piegarono, poi egli iniziò il dettagliato racconto: “La manifestazione era più violenta del solito. Ho svolto incarichi di contenimento di manifestanti in occasioni analoghe, ma non c’era mai stata così tanta violenza. Agivano organizzati, quasi come fossero militari o simili, e non sto esagerando. Attaccavano le file della polizia in piccoli gruppi, armati di spranghe e mazze. Hanno anche modificato i loro proiettori olografici: a comando le parole dei loro slogan esplodevano, producendo effetti luminosi accecanti. Era un vero e proprio attacco premeditato verso le biblioteche, non so quanti libri abbiano distrutto. Questo il quadro della situazione…per quanto riguarda me, nello specifico…ho commesso un errore: mi sono staccato dalla mia squadra ed ho iniziato a correre dietro ad un gruppo di facinorosi, che avevano appena dato fuoco a tre auto. Mi sono infilato in quel vicolo, così stretto, così buio; mi sono fatto sorprendere: sono usciti dai lati, con le spranghe, mi hanno colpito al petto, alle gambe ed alla testa. Avevano il volto incappucciato, facevo persino fatica a distinguere i loro occhi, era tutto così buio…ero stordito, stavo per svenire, ma sapevo che dovevo rimanere sveglio e cosciente, o sarebbe stata la fine. Buio, e poi di nuovo luce: uno dei due, il più basso, era fuggito, rimaneva solo l’altro, massiccio ed alto. Ero in ginocchio, piegato in due, e questo continuava a parlarmi e a picchiarmi. I primi colpi, violentissimi, alla testa, avevano danneggiato la radio. Non sono uscito con il cranio fracassato solo grazie al casco. Urla, insulti, suoni, tutti mi vorticava attorno. Ancora calci e pugni…la pistola che avevo cercato di estrarre, mi fu strappata di mano, scivolò più avanti, rotolando. Ancora calci e pungi…ero per terra, sdraiato, il mio volto verso il suo. E poi… altri si aggiunsero, sogghignavano tutti e gridavano…sembrava un branco di belve che si accingeva al pasto, un branco di leoni che si avventa su un bisonte ferito…” Il poliziotto tacque un attimo, imbarazzato. “Ma i leoni cacciano i bufali?” L’avvocato si lasciò scappare un sorriso, prima di ricomporre compostamente i lineamenti della faccia e rispondere: “Non lo so. Ma non importa, prosegua.” Silenzio. PINCO PALLINO deglutì, si versò un bicchiere d’acqua e lo vuotò per metà prima di riprendere il discorso: “Erano lì, erano sopra di me quando…Lui arrivò. Aveva delle ali, delle ali nere, enormi, ali che sbatté rumorosamente nell’aria, come per annunciarsi. Tutti si voltarono, tutti notarono la sagoma nera, posata su un balcone. Era puro e lucido ebano, una goccia di luce nera, raggrumata in una figura umanoide. Le braccia erano possenti, le gambe muscolose e flessuose, il petto largo, ornato di motivi geometrici, le spalle larghe e le ali…le ali erano avvolte attorno alla ringhiera del balcone, che coprivano completamente. Una lunga coda penzolava nel vuoto, una coda simile a quella di uno scorpione, una coda che ispirava potenza e terrore.

Una visione infernale, dai contorni non ben definiti. Non me la sono sognata, l’hanno vista anche loro. Non parlò mai, non disse nulla, né si mosse. Ci guardava, ci fissava, anche se sembrava non avere occhi, quel volto nascosto nell’ombra sembrava solo un tozzo, gigantesco nudo cranio ferino dalle orbite vacue. Non parlò mai, non disse nulla, né si mosse, neanche quando gli spararono. I miei aggressori aprirono il fuoco, all’unisono. Due pistole e due fucili pesanti. Quattro uomini, quattro armi in tutto. Scintille e fulmini bianchi nel buio, bagliori. Lo mancarono e lo colpirono più volte, ma Lui rimase lì, immobile sul balcone, in attesa. Lui era un rapace in attesa di lanciarsi dalla sua roccia sulla morbida preda, al momento opportuno, per ingannarla con la sua forza e la sua velocità. Non fece nulla e tutti scapparono, gridando, calpestando rumorosamente le pozzanghere ed abbandonando le loro armi sulla strada. Tutti scapparono tranne uno, il più alto, che si volse a guardare me, con odio. Disse qualcosa, ma io non riuscivo a sentirlo. Stavo per svenire, la mia vista ed il mio udito erano quasi scomparsi, precipitati in una cacofonia senza fine. Nella confusione della sparatoria, ero riuscito a recuperare la mia arma, la stringevo forte fra le mie dita, la mia ancora di salvezza. L’uomo mi puntò contro il suo fucile, ed io di scattò alzai il mio braccio armato e gli sparai. Due colpi credo. I proiettili gli falciarono la faccia, il sangue schizzò sul suo petto e sul mio. E poi lo vidi: Lui che aveva osservato immoto tutta la scena, spiegò le sue ali e volò giù, verso di me e mi rivolse il suo sguardo. I suoi occhi erano rossi ed ardenti, i suoi occhi erano di brace, di brace infernale. Svenni…e poi mi risvegliai in volo, nell’ambulanza che si allontanava velocemente da grida funeste intervallate dal lancio di lacrimogeni. Non c’è altro da dire direi.” “No. Io devo ancora visionare il filmato, di cui mi hanno dato copia solo oggi stesso, però da quanto mi hanno detto sul filmato non c’è traccia di…insomma di quello che ha visto…sicuro di averlo visto veramente?” Il poliziotto alzò un poco la voce, stizzito: “Il casco è stato seriamente danneggiato, quindi le immagini video sono di bassa qualità, a tratti del tutto oscure; l’audio è pressoché inesistente. Tuttavia, ci sono i bossoli sulla strada. Quarantatre bossoli di vario calibro. Tutti verso il nulla, a quanto pare. Tutti questi bossoli sono stati trovati in direzione del balcone che le dicevo. Un’altra ventina è stata trovata sul balcone stesso. Curioso che quattro persone abbiano sparato tutte nella stessa direzione, verso una MIA visione, non trova?” L’avvocato tacque, e completò i suoi appunti. Alzò la penna dal foglio e la fece roteare agilmente fra le dita. “Sa disegnare?” Chiese improvvisamente. “Come?” Domandò stupito PINCO PALLINO. “Le ho chiesto se sa disegnare. Vorrei uno schizzo della situazione. E se me lo sta per chiedere…non m’interessano le ricostruzioni in computer-grafica. Mi piacciono le cose tradizionali. “ “Posso provarci, avvocato. Non le assicurò un gran risultato…ma posso sempre provarci.” “Eccellente. Ah, c’è un’altra cosa che lei dovrebbe provare a disegnare: Lui.” “Posso provarci. Ma ci vorrà del tempo.” “Io non ho fretta. Aspetterò. Qui.” Roland estrasse un foglio bianco dalla borsa e lo passò al poliziotto, seguiti da una matita ed una gomma. “Non oso immaginare quanto costino questi articoli. Praticamente giocattoli per professionisti danarosi e capricciosi. Senza offesa naturalmente.” “Oh io non mi offendo. Ci sono modi più esotici per spendere i proprio soldi. Come acquistare vecchie macchine di inizio secolo, ed andarci in giro, incuranti delle tassazioni abnormi, dei costi del carburante, per non parlare di quelli assicurativi.” “E scommetto che lei è il primo a farlo.” Disse divertito PINCO PALLINO, mentre il suo disegno iniziava ad assumere una forma nettamente più definita. “Come mai si è offerto di difendermi gratuitamente?” Aggiunse il disegnatore improvvisato. “Perché abbiamo un amico in comune: PINCO PALLALTRO che mi ha chiesto di farle questo favore. E’ per questo che so che lei sa disegnare discretamente, ed è per questo che glielo ho chiesto.” “Ah, il detective, quel vecchio marpione. Vi conoscete?Come mai?” “PINCO PALLALTRO lavora per me. Svolge per me discrete indagini. Ed è piuttosto bravo…”L’avvocato attese circa trenta minuti, poi PINCO PALLINO alzò la testa dal foglio ed appoggiò la matita sul tavolo. “Ha finito con il disegno?” Chiese Roland. “Si. Spero che possa andare. Comunque direi che possiamo iniziare a darci del tu, se non è un problema.” “Per me va bene.” Il poliziotto passò il foglio in mano all’avvocato, che lo osservò soddisfatto. “Ottimo. Ora devo andare. Ci sentiremo più avanti per il processo, ma dovrebbe essere solo una pura formalità. I fatti sono lampanti ed evidenti.” PINCO PALLINO scrollò le braccia e disse: “Se lo dici tu…l’avvocato sei tu, mica io.” Roland sorrise, salutò il cliente con un cenno della mano e si avvicinò alla porta. “Un’ultima cosa: non accetti interviste, non parli con nessuno se non ci sono io. Ok?” “Si si, conosco la trafila. Sai quante volte me lo sento dire “non dirò nulla senza il mio avvocato”? Troppe volte…troppe, sul serio.” “Lo so. Posso immaginare. Succede sempre così. Ci sentiamo prossimamente.” L’avvocato sparì oltre la porta, che rapidamente si richiuse alle sue spalle sibilando.

Roland camminò lentamente nel corridoio che l’avrebbe ricondotto all’ascensore. Le dita erano strette attorno al manico della borsa, i pensieri già lontani, oltre le mura dell’edificio; guardò distratto il pavimento e le foto panoramiche della città appese alle pareti, prima che un vociare allegro attirasse la sua attenzione. Alzò il viso distrattamente, e di scattò la mano lasciò la borsa, che cadde pesantemente al suolo con un tonfo sordo. Rimase immobile, ed osservò la donna che passeggiava in corridoio, accanto ad un poliziotto in divisa. I loro sguardi s’incrociarono, gli occhi si scrutarono, cercando perdute sfumature nelle rispettive iridi. Rimasero immobili e silenti, poi lei disse: “Roland!” L’avvocato sorrise e le si avvicinò abbracciandola e baciandola tre volte sulle guance, prima di rispondere al saluto: “Serry!Quanto tempo, ma che ci fai qui?” “Sono venuta ad interrogare un poliziotto, nell’ambito di un’inchiesta in cui è stata richiesta la mia consulenza, per tracciare il profilo psicologico di un sospetto.” “Posso sapere chi devi interrogare?” La ragazza si scambiò un’occhiata con il poliziotto che annuì silenziosamente con un movimento del viso dai lineamenti squadrati. “Naturalmente sempre che tu non debba uccidermi dopo avermelo detto.” Aggiunse Roland sorridendo. “No, no, tranquillo. Si tratta di PINCO PALLINO. Presente quel poliziotto che…” L’avvocato la interruppe di nuovo, rise, poi tornò serio e cerco di parlare ma ricominciò a ridere. Si ricompose ed infine riuscì a dire con tono formale: “Allora mi dispiace, ma penso proprio che non potrai interrogarlo. Il signor PINCO PALLINO è mio cliente, ed ho convenuto con lui di non rilasciare alcuna dichiarazione in mia assenza.” “Cosa?E’ tuo cliente? Ma come è possibile?” “Stupisciti: gli avvocati difendono la gente, ok? Sai quegli strani esseri che viaggiano con il codice sottobraccio, si vestono con una toga nera che li fa sembrare Batman e gridano sempre quando possono “obiezione vostro onore!”, presente? Ecco. Ed inoltre: nell’ambito di quale inchiesta devi interrogare il signor PINCO PALLINO?” “Beh a quanto ho capito lui ha visto il Gargoyle, ed interrogandolo potrei ricavare dati utili per tracciare un profilo di questo pericoloso criminale.” “Cosa? Tu credi a questa leggenda metropolitana?” “Beh…le leggende metropolitane non sparano addosso alla gente. Abbiamo diversi casi documentati di uccisioni effettuate con le stesse armi da parte di una sorta di vigilante per cui è sempre Halloween.” “Divertente. Comunque al momento non potrai interrogare il mio cliente. Sarà mia cura fornirti tutte le informazioni non coperte da segreto professionale che sarò in grado di consegnarti.” Roland ammiccò con l’occhio destro. “..se mi fornirai un tuo recapito” “Questa è la peggiore scusa con cui mi hanno chiesto il numero di telefono…in questi anni non sei proprio cambiato eh? Comunque ok, ti do il mio numero, così sei felice.” “Non immagini quanto!” Disse Roland estraendo il PDA dalla tasca interna della giacca. Mentre inseriva il nuovo numero nella rubrica, chino sul display del suo PDA, sbirciò con furtive occhiate la giovane criminologa in piedi davanti a lui. Portava i capelli castani raccolti in una coda che cadeva morbidamente oltre le spalle, stiracchiandosi verso la metà della schiena. Due ciuffi sottili ed insubordinati, le incorniciavano le guance e il radioso sorriso. In un lampo, il palazzo e le pareti sparirono, sostituite da un’altra stanza, piena di studenti che occupavano file e file di poltroncine verdi. Un vociare sommesso proveniva da in fondo la sala, ragazzi e ragazze entravano ed uscivano innervositi. In un lampo, il palazzo e le pareti tornarono, i ricordi tornarono sepolti, prima che Roland potesse rivivere quel lontano lieto momento in cui l’aveva incontrata la prima volta. Si strinsero la mano, in un inutile gesto formale che stupì entrambi, prima di incamminarsi e di allontanarsi l’uno dall’altro. Poco dopo Roland tornò indietro per recuperare la sua borsa, così sconsideratamente abbandonata, ma di Serena non c’era traccia, i corridoi erano vuoti, tutto era vuoto. L’avvocato si fermò un istante, ed osservò lo spazio ove aveva appena parlato con lei; sulle sue spalle cadde improvviso il peso degli anni trascorsi senza mai vederla e sentirla, il peso dei momenti in cui avrebbe voluto semplicemente parlarle. Contrasse i muscoli del volto avviandosi di nuovo verso l’ascensore, ma la Malinconia aveva già lasciato segni evidenti sulle sue guance. Il tragitto all’interno della lucida cabina 23 parve apparentemente interminabile per chi da tristi ricordi era di nuovo affranto. Le porte si aprirono scorrendo con il loro tipico sibilo; Roland rimase per un attimo indeciso, prima di uscire dall’ascensore e di scandire ad alta voce il codice per il ritiro della sua auto. Il complicato puzzle del garage si rimise in moto, ed efficientemente gli restituì il suo coupè. Le porte esterne si aprirono, ed alcuni raggi di sole penetrarono nell’oscurità. Con una brusca accelerata, Roland uscì dal garage e dalla sede del Dipartimento Centrale della Polizia; attraversò ad alta velocità il ponte sospeso sulla foresta, ma rallentò nel tratto finale, per non infastidire la pattuglia di sorveglianza. Dopo un nuovo rapido controllo, s’inserì nelle normali strade cittadine, attraverso una delle arterie principali.

L’auto sfrecciò nell’ampia strada dall’asfalto curato; la sagoma rossa s’insinuò elegantemente nel traffico, rombando aggressiva e rompendo il monotono silenzio degli altri veicoli a propulsione elettrica. Fermo ai semafori, il coupè considerato vetusto, attirava sguardi curiosi ed occhiate irritate dall’infiammabile, inquinante benzina che scorreva ancora, insolente all’epoca del dominio dell’elettricità, in dimenticate, geometriche combinazioni di cilindri e valvole. La mattina era fredda, ma gradevole: splendeva un sole pallido, gemma incandescente in un cielo quasi sereno, sporcato da pallide e piccole nubi. Il display rossastro, posizionato fra gli ampi quadranti rotondi e ben delineati del contagiri e del tachimetro, segnalava una temperatura di dodici gradi centigradi. Una sottile brezza accarezzava le curve dell’auto, i passanti frettolosi e le vette distanti dei grandi grattacieli, rifulgenti di schermi video e di altre proprie luci artificiali. Raggiunto il centro della città, Roland entrò in una piazza decorata da gradevoli prati dall’erba corta e regolare, su cui si apriva un arco finemente lavorato, a sua volta incastonato in un elegante palazzo neoclassico. Azionò il telecomando ed attese che il nero cancello dall’elaborato disegno si aprisse, scorrendo sulla sua guida affogata nel pavimento di una lunga galleria d’accesso. Frattanto, sulla strada principale, Roland osservò con distacco un’auto della polizia sollevarsi sui sostentatori magnetici, assumere la configurazione di volo reclinando le ruote e sfrecciare nel cielo, baluginando di rosso e blu. Con una lenta andatura, e relativo rumore sommesso del motore, l’avvocato guidò l’auto rossa nella galleria che percorse a velocità moderata, fino al posteggio a lui riservato. Parcheggiò l’auto sbrigativamente, un poco storta, ma non fuori dalle lucide strisce bianche che delimitavano ogni singolo posto-macchina. Discese e raggiunse l’ascensore privato che lo trasportò direttamente all’interno del suo lussuoso studio, un ampio attico dalle cui superfici vetrate si poteva abbracciare anche col solo occhi nudo, tutta la vastità della megapoli, uno spettacolo che inquietava ogni cuore, specie durante i rossastri tramonti. Entrando, Roland salutò distratto la sua segretaria, appese il soprabito ad un attaccapanni nell’ingresso e si diresse subito nel suo ufficio personale, ove si sedette. Schiacciò un pulsante, e con un lieve ronzio un monitor si sollevò direttamente dalla sua scrivania, rivelando anche una tastiera ed affiancata ad essa, la sottile fessura del lettore di dischi dati. Aprì la borsa e recuperò il disco-dati ed il block-notes che appoggiò sulla scrivania; la borsa fu di nuovo abbandonata per terra, su un tappeto verde oliva, mentre iniziò a sfogliare e a rileggere con poca attenzione gli appunti presi durante il colloquio con l’agente di polizia PINCO PALLINO. Il suo interesse per quegli scritti scemò rapidamente e l’occhio gli cadde prima sulla custodia trasparente del disco-dati, poi sul PDA, che come suo solito aveva sfilato dalla tasca interna della giacca ed inserito nella sua base per ricaricare le batterie. Lo staccò con un gesto secco ed osservò lo schermo del palmare, poi accedette con rapidi comandi alla rubrica; fece scorrere l’elenco fino al nome desiderato, che selezionò. Scritto a grandi lettere, il nome “SERENA” lampeggiava sul display. “Una volta l’avevi salvato sotto “Serry” questo numero. Pensi forse che cambierà qualcosa solo per questo stupido formalismo? La Serena rimarrà sempre la Serry. Sempre. Tra un giorno o un millennio, la chiamerai sempre così. Ed ora non CHIAMARLA brutto stupido. Vedi di avere almeno qualcosa di intelligente da dirle. Organizza il contenuto del colloquio col tuo cliente, vedi quello che puoi dirle e quello che devi tenere segreto, guardati quel disco dati e poi chiamala. E magari già che ci sei, invitala a cena. È una scusa più che valida, no?” Pensò Roland rimettendo il PDA nella sua base ovale di ricarica. Due led rossi lampeggiarono, avvisandolo che l’operazione di ricarica era ancora incompleta. Incrociò le mani sulla scrivania, appoggiò la schiena alla comoda sedia anatomica in pelle che assecondò il suo movimento, reclinandosi dolcemente all’indietro; chiuse gli occhi, ed il ricordo di una giornata particolare lo travolse: “Ti ricordi? Una giornata dipinta in differenti gradazioni di grigio: il cielo, le strade ed i palazzi contornavano una passeggiata verso l’Università, con la testa in cui, in un ciclo continuo, giravano nozioni di Diritto Costituzionale. Su tutto, la tipica tensione pre-esame. Passeggiavi lentamente, quasi con il desiderio di non arrivare mai all’Università, ma di camminare in eterno, verso un Nessun Dove. Ed invece arrivasti all’Università, fra i primi. Ti ricordi? Eri teso ed impaziente come sempre. L’Aula, “Magna” solo nella targhetta all’esterno, straripava di studenti ed un caldo abbacinante ti avvolgeva, vi avvolgeva tutti quanti, mentre le pareti s’impregnavano di discorsi sulla Corte Costituzionale o sull’elezione dei parlamentari. Ti ricordi?Andavi nervoso fuori e dentro l’Aula, come se con questo movimento potessi accelerare il tempo tuo e degli altri. Ti ricordi? Si, mi ricordo, ricordo tutto…ogni istante, ogni particolare, preludio dell’incontro con Lei…un incontro casuale, che illuminò tutta la giornata, che spostò i miei occhi sul suo viso, sui suoi occhi, sulla coppia di ciuffi lunghi e lisci che le incorniciano il viso ed il continuo sorriso. Lei parlava brillantemente e…parole o poesie non bastano a descriverla, ti ricordi? Mi ricordo, ricordo il mio pensiero: il quel giorno 2040 non è il giorno in cui ho affrontato e superato un esame importante, bensì il fugace e fortunato istante in cui ho incrociato la mia Stella, che come tutte le stelle è irraggiungibile, ma radiosa e splendente, m’illumina e…” Il suono insistente del telefono interruppe i suoi pensieri. Roland rispose allungando il braccio e raddrizzandosi. “Si??” Chiese un poco stordito. “Il detective Starck è qui. Lo faccio passare?” “Certamente” Rispose l’avvocato. Il detective apparve subito, vestito con un elegante completo nero, sopra cui portava un impermeabile grigio scuro. I capelli neri erano spettinanti, la mano sinistra in tasca, l’altra giocherellava con un cappello grigio ferro. “Allora avvocato?Tutto bene?” “Si Alan. Tutto bene. Ti stavo giusto aspettando per guardare la registrazione del casco, avanti accomodati.”. Il detective annuì, appoggiò il cappello su una sedia, si tolse l’impermeabile e lo abbandonò ripiegato sullo schienale della stessa, avvicinandosi a Roland e ponendosi alle sue spalle. Roland aprì delicatamente la custodia del disco dati ed inserì il suo contenuto nella sottile fessura del lettore. Nell’ampio monitor, le immagini registrate di un giorno tumultuoso iniziarono a scorrere. Immagini sfocate, velocissime; pugni, calci, grida, sagome e volti stravolti dalla violenza. Immagini disturbate e frammentarie. Un volto minaccioso, il volto dell’ucciso, gridò parole il cui audio era andato perduto e puntò un fucile. Uno sparo…schizzi di sangue, un volto devastato.

L’avvocato ed il detective rimasero in silenzio, prima di riguardare altre volte la registrazione. La dinamica dei fatti era chiara: l’agente PINCO PALLINO aveva agito per legittima difesa. Riguardarono il disco, per l’ottava volta, ed in quel frangente, Starck sussultò: “Ferma Roland…torna indietro.” Le immagini iniziarono a riavvolgersi, fino al punto in cui le labbra dell’ambientalista iniziarono a muoversi; nel farlo pronunciarono un nome. Roland mandò indietro più volte il disco, e più volte assieme a Starck osservò l’ambientalista pronunciare il nome di PINCO PALLINO, seguito da minacce di morte. L’avvocato schiacciò un pulsante ed arrestò del tutto il disco. “Come è possibile che quello sapesse il suo nome? Sono anni oramai che i poliziotti portano un casco dotato di un solo codice numerico identificativo registrato presso la centrale. E’ impossibile vedere il volto di un poliziotto; si può risalire ad esso solo utilizzando l’archivio della polizia. Come poteva saperlo quel pazzoide? E soprattutto…se lo sapeva…vuol dire che allora voleva uccidere proprio PINCO PALLINO e non un poliziotto qualsiasi?” “Non lo so avvocato. Non so proprio cosa dire.”

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Ora lo stampo e stasera me lo leggo prima di andare a letto...

Sappi che lo aspettavo da tempo :)

There's no replacement for displacement.

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Anche tu ti ecciti palpeggiando pezzi di plastica? Perché stare qui a discutere con chi non ti può capire? Esprimi la tua vera passione passando a questo sito!

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