Vai al contenuto

Le armi di Harlan e quelle di Baghdad


alfaomega

Messaggi Raccomandati:

da "il manifesto" di ieri, 1 luglio 2005

Le armi di Harlan e quelle di Baghdad

Viaggio nell'America povera e profonda. Dove tutto è «sopra il mio livello»

Per il ritiro dall'Iraq sono proprio tutti, ma senza rendersi conto di quello che vi succede, se non che «muoiono troppi americani». Un antico e radicato rapporto con le armi

ALESSANDRO PORTELLI

HARLAN, KENTUCKY

«Siamo americani, noi non miriamo ai civili». Tim ha 27 anni, una bella faccia onesta, porta ancora il color olivo-militare e il taglio di capelli di quando era in Iraq, nel primo anno della guerra. Lavora alla manutenzione del Southeast Community College, vicino Harlan, Kentucky. Snocciola i dati della sua missione come se fosse a rapporto - unità di combattimento, giorno della presa di servizio, ci manca poco che mi dica nome cognome e numero di matricola. «We're Americans, we don't target civilians»: come dire, queste cose le fanno altri, non noi che siamo per definizione buoni. Ci sono stati morti fra i tuoi commilitoni? «Sì». Ne è valsa la pena? «Quando vedevo la gratitudine negli occhi degli iracheni che avevamo salvato, penso di sì». Su una bancarella a New York sfoglio un libro di fotografie sull'Iraq: la metà sono di soldati americani con un bambino in braccio, soldati americani che aiutano e assistono, qualche foto di combattimento che mostra quanto è grande il sacrificio dei combattenti, e il resto è l'abbattimento della statua di Saddam Hussein. Anche per Tim, l'esperienza irachena è stata quella del primo anno, quando ancora non dovevano fare i conti con le «insurgency», e quando i civili venivano ammazzati soprattutto dalle bombe intelligenti, e molto meno dai soldati sul terreno come lui.

Nell'arco di una settimana, avrò chiesto a una trentina di persone nella contea di Harlan (che come tanti Sud ha un rapporto speciale con le forze armate; metà delle macchine portano il fiocco che vuol dire «sostegno alle truppe») e assolutamente tutti hanno risposto: vogliamo che finisca, vogliamo che le truppe tornino a casa. Troppi morti americani - non c'è stato neanche nessuno che, senza sollecito da parte mia, abbia ricordato che ci sono anche morti iracheni: non è per inumanità, è che davvero il resto del mondo ha una realtà attenuata per tanti americani e i loro media non ne parlano mai (comunque, le «Famiglie dell'11 settembre per un futuro di pace» hanno messo su una mostra sulle vittime irachene, e la portano in giro per le città dell'Est. Qui a Harlan non ci arriverà mai, e non ci proverà nemmeno).

Ma la guerra la vogliono finita comunque, anche se partono da premesse diverse. Scotty, afroamericano di Lynch, parla con una lucidità che è più facile trovare fra i neri che fra i bianchi, almeno da queste parti: è come il Vietnam, ci siamo andati con l'inganno, ci restiamo con la menzogna e ne usciremo solo con la sconfitta. Alicia, giovane madre di Harlan: ci siamo andati per le armi di distruzione di massa («che non c'erano», interrompe Scotty), ma adesso è ora di farla finita. Jeanette dice che era giusto andare perché «loro sono venuti qui a portaci via la nostra libertà», e resta letteralmente basita quando le rivelo che Saddam Hussein non aveva niente a che fare con l'11 settembre e con al Qaeda (una cosa è sapere dai giornali che più di un terzo degli americani crede ancora che l'11 settembre sia responsabilità di Saddam, e una cosa è vedere questo inganno incarnato in una brava persona in carne ed ossa).

«Il deserto è tanto vasto...»

Chiedo a Tim: ma le armi di distruzione di massa? E lui: «il deserto è tanto vasto, è facile nascondere quello che si vuole». Fa una fatica disperata per restare attaccato alle verità ufficiali, anche quando non gli collimano con l'esperienza. A ogni domanda problematica risponde, «sì, ci ho pensato», ma poi ha scansato il pensiero: mi pare una delle forme fondamentali del consenso nazionale. Se lo facciamo, ci sarà un motivo - siamo americani, mica miriamo ai civili; siamo americani, le nostre intenzioni sono sempre le migliori. Dico, ma lo sai che Saddam non c'entra con Osama? E lui, splendidamente: «it's above my pay level», è al disopra del mio livello di paga - come dire, a queste cose ci devono pensare quelli che sono pagati per pensare, non noi che siamo pagati per eseguire.

A New York, Mary Marshall Clark, che coordina il progetto di storia orale sull'11 settembre, mi racconta che è andata a parlare in un college, e alla fine le è venuta incontro, piangendo, una donna, «con le mani giunte semiaperte e mi ha detto: quando mio figlio è partito per l'Iraq mi ha detto, mamma, prendi il mio cuore e tienilo nelle tue mani, perché so che laggiù finirò per perderlo. Pochi giorni fa mi ha scritto: mamma, è successo. Ho ucciso donne e bambini. Stavano fra noi e un gruppo di insorti, e io ho detto al mio reparto: avanti, facciamone hamburger».

Comunque, anche Tim lascia capire che qualche volta ai civili ha mirato anche lui: «Ogni casa dove entri in Iraq è piena di armi». Mi viene da ridere: se arrivasse un esercito di occupazione qui a Harlan, altro che armi ci troverebbe. Chester, il mio migliore amico di quaggiù, minatore invalido sul lavoro, persona intrinsecamente dolcissima, tiene in casa quarantadue fucili e pistole svariate. E' orgogliosissimo di una che «ha effettivamente ucciso delle persone», sia pure negli anni `20. Dev'essere quella con cui suo padre vendicò l'assassinio del proprio padre, come racconta un ritaglio di giornale gelosamente conservato. Pare che a una di quelle pistole sia collegato un fantasma, che segue la famiglia ogni volta che cambiano casa portandosela appresso. Chester vuole un bene immenso a figli e nipoti, che manifesta fra l'altro insegnandogli a sparare prima ancora che sappiano camminare (il suo generoso atto di ospitalità è mettere un fucile in mano a mio figlio e insegnargli a tirare a bersaglio). Sua figlia Marjorie, otto anni nell'esercito, è una tiratrice infallibile.

«Già», dice Tim, «ma noi le armi mica le usiamo per ammazzare le persone». A parte che la cosa è discutibile (Harlan si chiama «la sanguinaria» sia per i violenti scioperi degli anni `30, sia per il tasso di omicidi da record nazionale. Ma nella più tranquilla e dignitosa Hartford, Connecticut, dove vissero Mark Twain e Harriet Beecher Stowe - e dove si fabbricavano le mitiche Colt - il comune ha messo su squadre speciali di polizia per porre fine all'ondata di sparatorie nelle strade) dico, scusa, ma se ci fosse un'occupazione straniera ci scommetto che le armi le usereste per uccidere e per resistere. No comment: forse anche questo è al disopra del suo livello di paga.

Combattimenti di galli

Le armi sono un tema dominante più che in passato in questo viaggio a Harlan, il mio ventesimo in venticinque anni (l'altro sono i combattimenti di galli: la graziosa biondina Darleen fa una descrizione epica dell'allevamento illegale di suo padre, e aggiunge che se non fosse per i «polli da combattimento» la sua famiglia, dopo che suo padre è rimasto invalido in miniera, farebbe la fame). E poi, dice Tim, mica abbiamo in casa gli Ak-47. Veramente Thelma, una giovane vedova che si lancia in panegirici sulla bellezza delle armi, ne ha uno, e come lei parecchi altri.

La passione per le armi, in questa enclave di frontiera attraversata da problemi sociali drammatici, è un'espressione diretta del proprio senso di autosufficienza. Anni fa, Bob Simpson mi raccontò la storia (spuria, ma diffusa) di quando suo padre gli fece vedere le impronte di orso sulla neve e gli disse, prendi il fucile e vai: il tuo pranzo è alla fine di queste impronte. «Potrei sopravvivere nei boschi, mangiando solo quello che uccido», dice Chester, che nei boschi è cresciuto. Ma c'è un amore per le armi proprio come oggetto, da toccare, pulire, guardare, maneggiare, una passione estetica. «Vuoi vedere il mio fucile?» chiede orgogliosa Crystal, vivace divorziata cinquantenne (e allevatrice di galli). Apre una custodia che tiene in salotto e si fa fotografare con in mano una cosa che al mio occhio inesperto sembra più o meno un bazooka.

Thelma parla proprio della bellezza delle armi, del piacere tattile di portarle per i boschi; ma aggiunge tutte le linee di difesa ufficiali. Il diritto di portare le armi è sancito dalla Costituzione (fra l'altro, precisamente per le ragioni per cui le usano almeno una parte egli iracheni: per garantire una difesa popolare da un'invasione straniera). Quello di portare le armi è uno dei pochi diritti civici di cui non siano deprivati: è un modo (che a me pare distorto, ma è tangibile) per sentirsi cittadini, per riagganciarsi alle fondazioni del paese. Le faccio notare che la Costituzione garantisce molti altri diritti che lei non è in grado di esercitare e che comunque sono tutti regolati in qualche modo: questo è l'unico di cui si rifiuta ogni forma di regolazione. Allora passa alla seconda linea di argomentazione: sono le persone, non le armi, che ammazzano le persone; le armi servono per autodifesa. Qui sta il punto: noi tendiamo a pensare alle armi come a uno strumento che genera violenza, loro come a una difesa da una violenza intrinseca, onnipresente a priori.

Il marito di Thelma è stato assassinato dal suo migliore amico per rubargli le pillole antidolorifiche che gli erano state prescritte dopo l'infortunio in miniera e che qui sono la base di un'epidemia terrificante di assuefazioni e dipendenze chimiche. «Se mio marito avesse avuto un fucile sarebbe ancora vivo», dice lei. E io, «sarebbe ancora vivo se il suo assassino non avesse avuto un fucile». «Ha usato un coltello», chiude lei. Certe volte uno si vorrebbe mangiare la lingua.

E vorrebbe resistere ai luoghi comuni. Le cose sono un po' più articolate di quanto le metta il pur benemerito Michael Moore. Parecchie parti d'Italia pullulano di armi ben più di Harlan, e non per autodifesa o per andare a caccia (di animali, almeno). Né mancano da noi collezionisti e maniaci delle armi. A un certo punto, mi viene memoria di come è andato in Italia il referendum sulla caccia (grazie soprattutto alle regioni rosse). Mi ricordo articoli sulla pagina locale dell'Unità a Terni, nel dopoguerra, sul possibile uso rivoluzionario dei fucili da caccia che tutti gli operai tenevano in casa. La strage di Novara, con un fucile da caccia, sarà una sindrome americana, ma certo risuona assai bene con tradizioni e tendenze nostrane che faremmo bene a non allontanare scaricandole su qualcun altro.

Auto attuale: VW Passat Variant 4Motion 130cv con Torsen

La tua prossima auto: a trazione posteriore o integrale

Moto: YAMAHA FZ6 FAZER Diamond Black '05 "BLACK MAMBA" [clic], Suzuki GSX750 "Cicciottona" e YZF-R6 solopista 8-)

Link al commento
Condividi su altri Social

Crea un account o accedi per lasciare un commento

Devi essere iscritto per commentare e visualizzare le sezioni protette!

Crea un account

Iscriviti nella nostra community. È facile!

Registra un nuovo account

Accedi

Sei già registrato? Accedi qui.

Accedi Ora
×
×
  • Crea Nuovo...

 

Stiamo sperimentando dei banner pubblicitari a minima invasività: fai una prova e poi facci sapere come va!

Per accedere al forum, disabilita l'AdBlock per questo sito e poi clicca su accetta: ci sarai di grande aiuto! Grazie!

Se non sai come si fa, puoi pensarci più avanti, cliccando su "ci penso" per continuare temporaneamente a navigare. Periodicamente ricomparità questo avviso come promemoria.