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Che Guevara un marchio!


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Il mito del comandante riletto da un saggista latinoamericano

Così il Che è diventato il logo del capitalismo

«La sua faccia è su magliette e accendini, ma molti fan ignorano i misfatti del guerrigliero. Che ordinò centinaia di esecuzioni...»

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L'icona del Che innalzata dai manifestanti durante una protesta anti G8 a Goteborg (Ansa)

Dopo aver fatto così tanto (o così poco?) per distruggere il capitalismo, Che Guevara è diventato un marchio che è la quintessenza del capitalismo stesso. La sua immagine compare su tazze, berretti, accendini, portachiavi, portafogli, bandane, top, blue jeans, confezioni di tè alle erbe e, naturalmente, sulle immancabili t-shirt con la fotografia di Alberto Korda che ritrae l’idolo socialista con il berretto nei primi anni della rivoluzione, l’immagine che a 38 anni dalla morte del Che è ancora il simbolo dello chic rivoluzionario (o capitalista?). Sean O’Hagan ha scritto sull’ Observer che esiste persino un detersivo in polvere con lo slogan «Il Che lava più bianco».

Dei prodotti del Che si occupano grandi corporation e piccole ditte,

L'immagine del Che sulle magliette di un giovane cinese (Ap)

come la Burlington Coat Factory, nel cui spot tv figura un ragazzo in abiti da lavoro e t-shirt del Che, o la Flamingo’s Boutique di Union City, nel New Jersey: il proprietario ha arginato la furia degli esuli cubani locali ricorrendo all’imbattibile argomento del «vendo qualsiasi cosa la gente desideri comprare». Neanche i rivoluzionari sono immuni dalla frenesia del mercato: The Che Store, il negozio del Che su Internet, soddisferà «tutte le vostre esigenze rivoluzionarie»; il giornalista italiano Gianni Minà ha venduto a Robert Redford i diritti del film ispirato al diario del viaggio che il giovane Che fece in Sudamerica nel 1952, in cambio del permesso di accedere al set, sul quale ha potuto girare un proprio documentario. Per non parlare di Alberto Granado, che accompagnò il Che in quel viaggio e oggi fa da consulente ai documentaristi mentre - come riporta El País - tra vino della Rioja e magret d’anatra si lamenta da Madrid di non poter riscuotere i diritti per colpa dell’embargo americano contro Cuba. (...)

La trasformazione di Che Guevara in un marchio capitalista non è nuova ma il marchio ha conosciuto un revival piuttosto significativo, poiché giunge anni dopo il collasso politico e ideologico di tutto ciò che Guevara ha rappresentato. Una ripresa insperata, dovuta principalmente a I diari della motocicletta , il film prodotto da Robert Redford e diretto da Walter Salles. (...) Per l’esattezza, questo ritorno di fiamma è iniziato nel 1997, quando, nel trentesimo anniversario della morte del Che, sono comparse nelle librerie cinque biografie e sono stati rinvenuti i resti di Guevara nei pressi di una pista dell’aeroporto boliviano di Vallegrande, in seguito alle rivelazioni fatte, con particolare tempismo, da un generale boliviano in pensione. L’anniversario ha richiamato l’attenzione sulla celebre fotografia di Freddy Alborta al cadavere del Che steso su un tavolo, romantico come il Cristo dipinto da Mantegna.

È normale che i fedeli di un culto non conoscano la verità storica sul loro eroe. Non sorprende che gli attuali seguaci di Che Guevara, i suoi nuovi ammiratori postcomunisti, si autoingannino aggrappandosi a un mito - eccezion fatta per i giovani argentini, che hanno coniato l’espressione: «Tengo una remera del Che y no sé por qué», «Ho una maglietta del Che e non so perché».

Pensiamo a quanti hanno recentemente brandito o invocato il volto del Che come icona di giustizia e di ribellione agli abusi del potere. In Libano, i dimostranti che protestavano contro la Siria sulla tomba del primo ministro Rafiq Hariri portavano l’immagine del Che. Thierry Henry, un calciatore francese che gioca nell’Arsenal, in Inghilterra, si è presentato a un megagalà organizzato dalla Fifa, la federazione calcistica mondiale, indossando una t-shirt del Che. In una recente recensione del film La terra dei morti viventi di George A. Romero pubblicata sul New York Times , Manohla Dargis ha scritto: «Lo choc maggiore è la trasformazione di un nero zombie in un retto leader rivoluzionario». E ha aggiunto: «Immagino che il Che viva, dopo tutto».

In un viaggio in Venezuela, nel corso del quale ha incontrato Hugo Chávez, il campione di calcio Maradona ha esibito un emblematico tatuaggio del Che sul braccio destro. A Stavropol, nel sud della Russia, i manifestanti che denunciavano le concessioni statali a pagamento hanno raggiunto la piazza centrale sventolando bandiere del Che. A San Francisco, la leggendaria City Light Books, tempio della letteratura beat, offre ai visitatori una sezione dedicata all’America latina, nella quale metà degli scaffali regge libri sul Che. José Luis Montoya, un poliziotto messicano che combatte il traffico di droga a Mexicali, indossa un fazzoletto del Che perché lo fa sentire più forte. Nel campo profughi di Dheisheh, in Cisgiordania, i manifesti del Che decorano una parete che celebra l’Intifada. Un domenicale di Sydney, in Australia, elenca i tre ospiti ideali per un party: Alvar Aalto, Richard Branson e Che Guevara. Leung Kwok Hung, il ribelle eletto al Consiglio legislativo di Hong Kong, sfida Pechino indossando una t-shirt del Che. In Brasile, Frei Betto, consigliere del presidente Lula da Silva responsabile del programma «Fame zero», ritiene che «avremmo dovuto prestare meno attenzione a Trotskij e molta di più a Che Guevara».

La più famosa: alla cerimonia degli Academy Awards di quest’anno, Carlos Santana e Antonio Banderas hanno interpretato il tema musicale de I diari della motocicletta; Santana portava una t-shirt del Che e un crocifisso. Espressioni del nuovo culto del Che sono ovunque. Ancora una volta, il mito attrae persone la cui causa rappresenta l’esatto opposto di ciò che era Guevara. (...)

Nel gennaio 1957, come indicato nel diario della Sierra Maestra, Guevara sparò a Eutimio Guerra, sospettato di aver rivelato delle informazioni: «Ho risolto il problema con una calibro 32, nella parte destra del cervello... Ciò che apparteneva a lui ora era mio». Più tardi sparò ad Aristidio, un contadino che aveva espresso il desiderio di ritirarsi appena i ribelli si fossero spostati. E mentre si domandava se la vittima «fosse colpevole al punto da meritare la morte», non esitava a ordinare l’uccisione di Echevarría, fratello di un compagno, colpevole di crimini imprecisati: «Doveva pagare». In altre occasioni simulava le esecuzioni senza portarle a termine, una forma di tortura psicologica. Luis Guardia e Pedro Corzo, due ricercatori della Florida che stanno lavorando a un documentario su Guevara, hanno ottenuto la testimonianza di Jaime Costa Vázquez, un ex comandante dell’esercito rivoluzionario noto come «El Catalán», secondo il quale molte delle esecuzioni attribuite a Ramiro Valdés, futuro ministro degli Interni cubano, sono invece direttamente imputabili a Guevara, perché sulle montagne Valdés ne eseguiva gli ordini. «In caso di dubbio, uccidete», era la direttiva del Che.

Alla vigilia della vittoria, secondo Costa, il Che avrebbe ordinato l’esecuzione di una ventina di persone a Santa Clara, al centro di Cuba. Alcuni furono uccisi in un hotel, come ha scritto Marcelo Fernándes-Zayas, altro ex rivoluzionario poi diventato giornalista, precisando che tra gli uccisi, i casquitos, c’erano contadini che si erano uniti all’esercito solo per non restare disoccupati. Eppure, la «macchina che uccideva a sangue freddo» non mostrò appieno la sua ferocia finché, immediatamente dopo il crollo del regime di Batista, Castro gli affidò la direzione del carcere di La Cabaña. (Castro aveva un talento innato nello scegliere le persone adatte a proteggere la rivoluzione dall’infezione). San Carlos de La Cabaña era una fortezza di pietra utilizzata nel XVIII secolo per difendere l’Avana dai pirati inglesi; più tardi divenne una caserma militare. Guevara ne fu direttore nella prima metà del 1959, in uno dei periodi più neri della rivoluzione. José Vilasuso, avvocato e professore alla Universidad Interamericana de Bayamón di Porto Rico ed ex membro dell’organismo che si occupava dei processi sommari di La Cabaña, mi ha recentemente raccontato: «Il Che presiedeva la Comisión Depuradora. Il processo rispettava la legge della Sierra: c’era una corte militare e secondo le indicazioni del Che dovevamo agire con convinzione, perché erano tutti assassini e procedere in modo rivoluzionario significava essere implacabili. Il mio diretto superiore era Miguel Duque Estrada. Il mio compito consisteva nel sistemare le pratiche prima che fossero inviate al ministero. Le esecuzioni si svolgevano dal lunedì al venerdì, in piena notte, appena dopo l’emissione della sentenza e l’automatica conferma in appello. Nella notte più orribile che io ricordi, furono uccisi sette uomini».

Javier Arzuaga, il cappellano basco che recava conforto ai condannati a morte e fu testimone di decine di esecuzioni, mi ha recentemente incontrato nella sua casa di Porto Rico. Ex prete cattolico, oggi settantacinquenne, si definisce «più vicino a Leonardo Boff e alla teologia della Liberazione che all’ex cardinale Ratzinger» e ricorda: «C’erano circa ottocento prigionieri in uno spazio capace di contenerne non più di trecento: ex militari e poliziotti dell’era di Batista, giornalisti, qualche uomo d’affari e alcuni commercianti. Il tribunale rivoluzionario era formato da uomini delle milizie. Che Guevara presiedeva la Corte d’appello. Non ha mai annullato una sentenza. Visitavo il braccio della morte nella Galera de la muerte. Si sparse la voce che ipnotizzavo i prigionieri perché molti restavano calmi, così il Che diede l’ordine che fossi presente alle esecuzioni. Dopo la mia partenza in maggio furono eseguite ancora molte sentenze, io vidi 55 esecuzioni. C’era un americano, Herman Marks, evidentemente un ex carcerato. Lo chiamavamo "il macellaio" perché provava piacere a dare l’ordine di sparare. Difesi davanti al Che la causa di numerosi prigionieri. Ricordo in particolare il caso di un ragazzo, Ariel Lima. Il Che non si smosse. Né cambiò idea Fidel, al quale feci visita. Rimasi così sconvolto che alla fine del mese di maggio 1959 mi fu ordinato di lasciare la parrocchia di Casa Blanca, dove si trovava La Cabaña e dove avevo celebrato la messa per tre anni. Andai a curarmi in Messico. Il giorno che partii, il Che mi disse che ciascuno di noi aveva tentato di portare l’altro dalla propria parte, invano. Le sue ultime parole furono: "Quando ci toglieremo le maschere, ci ritroveremo nemici"».

Quante persone furono uccise a La Cabaña? Pedro Corzo propone una stima di duecento vittime, simile a quella calcolata da Armando Lago, un professore di economia in pensione che ha compilato un elenco di 179 nomi. Vilasuso sostiene che tra gennaio e la fine di giugno del 1959 (quando il Che lasciò l’incarico a La Cabaña) furono uccise quattrocento persone. Cablogrammi segreti inviati dall’ambasciata americana dell’Avana al Dipartimento di Stato a Washington parlavano di «oltre cinquecento». Secondo Jorge Castañeda, uno dei biografi di Guevara, padre Iñaki de Aspiazú, cattolico basco vicino alla rivoluzione, avrebbe parlato di settecento vittime. Félix Rodríguez, un agente della Cia che fece parte della squadra incaricata di dare la caccia a Guevara in Bolivia, mi ha raccontato di aver affrontato con il Che la questione delle «circa duemila» esecuzioni delle quali era responsabile. «Disse che erano tutti agenti della Cia e non fornì il numero», ricorda Rodríguez. Le cifre più elevate possono tenere conto di esecuzioni che ebbero luogo nei mesi successivi al termine dell’incarico del Che a La Cabaña.

E questo ci riporta a Carlos Santana, al suo abbigliamento chic in stile Che. In una lettera aperta pubblicata su El Nuevo Herald il 31 marzo di quest’anno, il grande musicista jazz Paquito D’Rivera ha criticato Santana per l’abbigliamento esibito agli Oscar e ha aggiunto: «Uno dei cubani di La Cabaña era mio cugino Bebo, rinchiuso perché cristiano. Mi racconta con amarezza infinita di quando dalla sua cella, all’alba, sentiva la voce dei tanti che, senza processo, morivano gridando "Lunga vita a Cristo re!"».

Alvaro Vargas Llosa

© The New Republic

(traduzione di Maria Serena Natale)

15 luglio 2005

Ci solleveremo dalle tenebre dell'ignoranza, ci accorgeremo di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi!Impareremo a volare! Richard Bach, 1973," Il gabbiano Jonathan Livingston"

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il 99% di quella gente manco sa chi fosse e cosa ha fatto...

Mah, proverò a lanciare le magliette con garibaldi, ma poi in padania non me le compra nessuno :lol:

"The great enemy of the truth is very often not the lie -- deliberate, contrived and dishonest -- but the myth -- persistent, persuasive and unrealistic"

(John Fitzgerald Kennedy)

"We are the Borg. Lower your shields and surrender your ships. We will add your biological and technological distinctiveness to our own. Your culture will adapt to service us. Resistance is futile!"

"Everyone is entitled to their own opinion, but not their own facts!"

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in Padania lanciale con Cavour (l'ho scritto bene sta volta?)

Ci solleveremo dalle tenebre dell'ignoranza, ci accorgeremo di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi!Impareremo a volare! Richard Bach, 1973," Il gabbiano Jonathan Livingston"

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il 99% di quella gente manco sa chi fosse e cosa ha fatto...

Mah, proverò a lanciare le magliette con garibaldi, ma poi in padania non me le compra nessuno :lol:

Ti hanno fregato. Hanno presentato una decina di giorni fà, credo a Roma una linea di design ispirata a miti del passato, e c'era pure una maglietta con Graibaldi se non ricordo male

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in Padania lanciale con Cavour (l'ho scritto bene sta volta?)

scherzi?? camillo benso conte di cavour è proprio il responsabile strategico dell'unità d'italia... lui mazzini... lo zio Giùsèp l'era solo el braccio armato ;)

A bergamo mi brucerebbero il negozio :lol:

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pensa che c'è in giro un imbecille che dice pressapoco cosi

"vorrei al mondo solo un grande chiesa

che parta da Che Guevara e arriva sino a MadreTeresa

...............

che passa per un prete di periferia

che va avanti nonstante il Vaticano"

pensate questo signore che va in giro con un berretto dell'esercito CUBANO

che se non sbaglio dice di essere toscano !!!!!!!

che mette vicino un 'assassino a una santa

e nonstante che più volte si sia dichiarato ATEO

viene a parlare e a giudicare ...la chiesa ..i preti di periferia ...e il Vaticano

ma che si facesse un bel KILO di cazzi suoi .

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Gug che ci vuoi fare, è colpa dei paninari, di berlusconi, dei cartoni violenti, dei robot goldrake, jeeg, mazinga, daltanius, daitarn... della mancanza di valori...

Mai che sia colpa dei genitori e insegnanti 68ini...

Però sia come la penso sulla chiesa e non ritorniamoci ;)

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(John Fitzgerald Kennedy)

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Mah, comunque probabilmente Che Guevara ha meno morti sulla coscienza di qualche santo come Pio IX.

Poi la canzone del cherubino è un po' banalotta, visto che è molto mediatica, fermandosi all'immagine di persone come Guevara e madre Teresa, ignorandone i forti limiti personali, molto diversi tra loro, ma comunque notevolissimi.

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Mah, comunque probabilmente Che Guevara ha meno morti sulla coscienza di qualche santo come Pio IX.

Poi la canzone del cherubino è un po' banalotta, visto che è molto mediatica, fermandosi all'immagine di persone come Guevara e madre Teresa, ignorandone i forti limiti personali, molto diversi tra loro, ma comunque notevolissimi.

io francamente a Madre Teresa vedo veramente pochi limiti.

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