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Il metodo Marchionne


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"Ho cercato di organizzare il caos e di ribaltare gli obiettivi del 2007"

Ecco il metodo Marchionne

"La mia rivoluzione alla Fiat"

di DARIO CRESTO-DINA

IL METODO Marchionne, se esiste, potrebbe cominciare da un numero di tre cifre: 4.26. E il numero del suo posto alla Fiat. Il quattro indica il piano del Lingotto, la fabbrica che per tutti quelli che lavorano qui dentro oggi è diventata semplicemente un indirizzo. Via Nizza 250. Perché la catarsi, la purificazione, sta anche nei nomi nuovi che si danno alle cose. Il ventisei contrassegna il suo ufficio di amministratore delegato. Corridoio a destra degli ascensori, luci filtrate da una mascherina di vetro verde, porte di legno chiaro. Se si prosegue e si gira ancora a destra si incontra la stanza che fu di Gianni Agnelli, quella che si spalanca sulle montagne, oggi occupata dal nipote John Elkann, vice presidente della Fiat. Il metodo Marchionne, se esiste, è anche il suo deviare dalla mistica della casa, l'onestà intellettuale di uno che non ha bisogno di genuflettersi al passato, né al vizio antico che era tutto torinese di sentirsi eternamente sudditi di una monarchia. Prima i Savoia poi gli Agnelli. Sarà immodestia. Sarà modernità.

Sarà l'essere italiano, canadese e svizzero assieme. Qualcuno ha detto che questo manager sarebbe piaciuto all'Avvocato. Marchionne, Gianni Agnelli non lo ha mai neppure sfiorato. Di fronte al suo ricordo si ferma qualche secondo a pensare. Poi dice: "Lo trovavo una persona affascinante. Mi interessava soprattutto il suo contorno, ciò che riusciva a muovere con una parola, un gesto". Niente di più. Il metodo Marchionne, se esiste, è non avere metodo. E, mi dice, rovesciare il tavolo ogni volta che si rende necessario. Così si presenta il manager, così sembra essere l'uomo. Uno a cui piace sorprendere.

Torniamo, per esempio, sulla porta della sua stanza, a quella targhetta di plastica trasparente sulla quale sta scritto 4 punto 26. "Una volta ero affezionato ai numeri dispari. Uno, tre, cinque... Come Montezemolo. Arrivato alla Fiat ho cambiato idea, ho deciso di privilegiare i pari. Mi sembrano più adatti al gruppo. Confortano, non crede?".

Sergio Marchionne è culturalmente e umanamente bulimico, un patchwork d'interessi. Ha 55 anni, una moglie e due figli, Alessio di diciotto anni e Tyler di tredici, che abitano a Ginevra. Ha tre lauree, in filosofia, economia commercio e giurisprudenza. Un master in business administration. E' commercialista e avvocato. Avrebbe voluto fare l'insegnante e ha cominciato a lavorare tardi, a trentun anni.

Pensa in inglese. Con la nostra lingua ogni tanto inciampa, l'eloquio si fa a tratti intermittente. Non gioca a golf. Andava in bicicletta, una city bike. E' stato un terzino vecchia maniera sui campi di calcio dei dilettanti. Vuole imparare bene lo scopone per sfidare il sindaco di Torino Sergio Chiamparino.

Adora la musica, ma, spiega, solo se il suono è perfetto. In ufficio, sotto un quadro nero su cui è vergata come incitazione e minaccia la parola Competition, c'è un impianto stereo dai riflessi dorati che deve valere un tesoro. Mi fa ascoltare il chitarrista brasiliano Baden Powell, Mozart e Bach.

Le note invadono l'aria come una pioggia di cristalli.

Sulla mensola ci sono molti cd di classica, ma anche Paolo Conte, Charles Aznavour, Sergio Endrigo. Marchionne coltiva la passione per le cose meccaniche molto complicate e precise, ma non sopporta di diventarne ostaggio.

Fisicamente prigioniero.

La sua collezione di maglioni neri è una comodità, una fuga dal nodo scorsoio della cravatta, non un modo anticonformista di stupire. Non porta anelli, braccialetti, catenine. Ha un orologio che sembra una navicella spaziale ma che si è sfilato dal polso e ha posato sulla scrivania.

"Se ho un metodo - dice - è un metodo che si ispira a una flessibilità bestiale con una sola caratteristica destinata alla concorrenza: essere disegnato per rispondere alle esigenze del mercato. Se viene meno a questa regola è un metodo che non vale un tubo. Ai miei collaboratori, al gruppo di ragazzi che sta rilanciando la Fiat, raccomando sempre di non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti. E magari arriveranno prima di noi. Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Di qui al 2010 il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere".

Nelle altre stanze del quartier generale Fiat, lungo i corridoi, dove erano abituati a amministratori delegati che non andavano oltre il buongiorno e buonasera, adesso Marchionne è considerato una specie di marziano. Lo temono. Lo stimano.

Almeno finora. Il 26 luglio del 2004, quando a Balocco presentò gli obiettivi alla comunità finanziaria, lo presero per matto. Adesso che la Fiat va, è soprannominato il Martellatore oppure Blackberry. La memoria e l'intuito lo spingono a intervenire su tutto, dal disegno di un pianale ai costi di un trattore, la tecnologia a fare più cose contemporaneamente e con più rapidità.

A Torino ha preso casa in centro, a Ginevra tuttavia ha conservato la residenza.

"Mi sveglio di solito alle cinque del mattino e per un paio d'ore leggo i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani: Repubblica, Corriere, il Sole, la Stampa. I quotidiani italiani hanno articoli bellissimi, straordinari pezzi culturali, ma resto sempre perplesso sulle troppe pagine dedicate alla politica, soprattutto a un certo tipo di politica".

Nella storia del suo metodo ci sono sei capitoli. Un numero pari. Il primo è dedicato al suo sbarco alla Fiat, giugno di tre anni fa. Trovò un'azienda quasi fallita e una montagna di debiti da scalare. "Ho cercato di organizzare il caos. Ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un'istituzione del paese in cui sono cresciuto.

La Fiat ha sempre avuto una parte importante in tutto ciò che è accaduto in Italia. Alla fine di luglio avevo un'idea molto chiara della situazione. Dovevamo risanare industrialmente l'azienda o l'azienda non ci sarebbe più stata. Non avevamo più giochetti da fare, nessuna carta da mettere sul tavolo. Dovevamo fare in modo che la gente tornasse a fidarsi di noi e a comprare le nostre macchine".

Eccoci al secondo capitolo: il prodotto. Le auto Fiat non avevano più appeal, gli ultimi modelli erano imbarazzanti, i margini di guadagno risicati, i tempi di produzione troppo lunghi. "Avevamo ereditato delle vetture difficili. Penso alla Stilo, alla seconda versione della Multipla. È provato che in un periodo di sei anni ci si toglie il 90 per cento dell'eredità, ma noi non avevamo sei anni davanti. Così abbiamo dimezzato i tempi di produzione, portandoli da trentasei a diciotto mesi. Con la nuova Bravo abbiamo eliminato i prototipi, lavorando con le simulazioni al computer.

Abbiamo investito nel mestiere con una disciplina quasi calvinista, abbiamo restituito la dignità del lavoro alla gente degli stabilimenti che erano stati quasi completamente abbandonati. Per un mese sono andato ogni domenica a Mirafiori. Era come una casa dimenticata dalla sua famiglia, i costumi da bagno sbattuti assieme agli scarponi da sci, i libri in terra, il cibo con la muffa nel frigorifero.

Siamo riusciti a ricreare una cultura della produzione che la Fiat aveva perduto, a smentire chi diceva che le nostre macchine era più facile comprarle che farle. In tre anni abbiamo centrato i margini operativi che ci eravamo prefissati. Forse c'è stata anche una buona botta di fortuna".

Il terzo capitolo è la put con General Motors. "Non ho fregato gli americani. Ho semplicemente insistito per ottenere ciò che era nostro. Ho sempre creduto che la Put fosse valida e che la Fiat non potesse rinunciare ai suoi diritti. Ho detto agli americani: vi vendo l'auto o mi pagate per non prenderla. Ho capito che Gm non era pronta a gestire la Fiat. Non voleva contaminazioni che l'avrebbero fatta morire. Quella dei preliminari è stata la fase più complicata, una partita a poker, una lunga e logorante battaglia di posizione, tra advisor, avvocati, analisti. Loro indagavano su di me e io su di loro. Sapevamo gli uni dell'altro persino che cosa mangiavamo a pranzo e cena. L'esercizio della put da parte della Fiat e un atto di resistenza di General Motors avrebbero decretato la fine della Fiat, l'impatto commerciale sarebbe stato terribile per il prodotto. In quei giorni un petardo acceso saltava da una mano all'altra. Ho firmato l'accordo il 13 febbraio del 2005, la vigilia di San Valentino. New York, Park Avenue. Ogni dettaglio di quel giorno sta ancora nella mia testa. Noi eravamo in cinque, loro un esercito.

Dopo la firma mi sono detto: il petardo adesso ce l'ho io. Che cosa farò domani? Il 15 febbraio ho chiesto ai miei uffici se era arrivato in banca il miliardo di euro da John Devine, l'allora responsabile finanziario di General Motors. Quando mi hanno detto di sì, mi sono sentito meglio. Altri 550 milioni sono arrivati a maggio. Oggi, come capitalizzazione, la Fiat vale più di Ford e Gm".

Capitolo quarto, la stretta delle banche. Le banche che erano diventate le vere padrone della Fiat in virtù del prestito di tre miliardi di euro. "Il Convertendo rappresentava per noi una seconda put. Una put nascosta che sarebbe scattata il 20 settembre 2005. Non è stato facile dire alle banche che non avremmo restituito i soldi e che avrebbero dovuto prendere le azioni Fiat, ma nell'occasione l'intervento della famiglia Agnelli è stato determinante. Lo sforzo fatto per mantenere la maggioranza del trenta per cento, attraverso l'equity swap, ha rappresentato un grande segno di fiducia nei confronti del management del gruppo. Io avevo presentato un piano fino al 2007 nel quale credevo fortemente. Alcune banche mi hanno seguito, altre no. Oggi si può dire che chi ha deciso di tenere le azioni ha fatto un affare. Gli altri no".

Nel quinto capitolo si racconta della formazione di una squadra. Una rivoluzione tra i dirigenti. Un taglio pesante con il passato, decine di colletti bianchi mandati a casa, un'ondata di nuovi, di giovani. Come sono stati scelti Luca De Meo (marketing), Lorenzo Sistino (Fiat Automobiles), Antonio Baravalle (Alfa Romeo), Olivier François (Lancia) e gli altri? "Un leader Fiat per me deve avere la capacità di accettare il cambiamento, di gestire le persone che dipendono da lui e di convertire i ventimila capi intermedi del gruppo. Farlo con 180mila operai comporterà un impegno più lungo, ma sono sicuro che ci riusciremo. Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi. Dei miei collaboratori faccio valutazioni continue, ogni giorno do loro i voti. Oggi è otto, domani magari cinque. Ho promosso ragazzi che erano qui da tempo, ma che venivano soffocati dai loro capi e non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant'anni. Oggi la Fiat è guidata da gente seria che sta allo stesso livello dei concorrenti. Siamo usciti dall'acqua che ci stava per affogare, ma dobbiamo conservare la paura di ricaderci. Dobbiamo temere l'acqua anche quando non c'è. La Fiat deve essere un'azienda multinazionale, con obiettivi globali. In questa gestione non può essere frenata da limiti imposti da terzi. L'Italia è un paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione. Io sono per il dialogo, sia con il governo sia con le parti sociali, sono per la condivisione degli obiettivi. La Fiat di qui al 2010 ha le capacità per crescere ancora e per fare avanzare l'Italia, ma il paese deve creare le condizioni e il clima che consentano davvero il cambiamento. Dobbiamo giocare una partita in un mercato che non conosce il concetto dell'etica. Se non ci saranno le condizioni per giocarla, se ci saranno dei blocchi politici, finanziari o economici, la Fiat sposterà la sua partita da qualche altra parte. Oggi è in grado di farlo. La mia non è una minaccia. Dico soltanto che non posso fermare questa baracca".

Capitolo numero sei. Che cos'è il potere per un uomo che dirige la più grande industria del paese e guadagna sei milioni di euro l'anno, stock option escluse? "Non me ne frega assolutamente nulla. Rispetto i ruoli, il potere a livello istituzionale, quello sì. È un insegnamento di mio padre, che era maresciallo dei carabinieri. Il mio è un potere industriale che cerco di esercitare con cura, rimanendo fedele agli obblighi morali. Nulla di ciò che faccio è mosso da interessi personali. Incontro politici soltanto per lavoro, non frequento salotti torinesi, milanesi, romani. Non sono megalomane. Con tutta sincerità non riesco neppure a vedere un mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie capacità. Temo di non avere dentro di me l'energia per un altro ciclo di questa intensità".

Sergio Marchionne, nonostante l'ormai famoso maglione, il sorriso amichevole e i modi gioviali da compagno di trattoria, non è un uomo tenero.

Ed è un uomo solo, come tutti i capitani d'industria. "La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo. Anche se per fortuna in Fiat ho trovato in Gianluigi Gabetti un grande amico. E ho una paura: che questo gruppo dopo i buoni risultati ottenuti cominci a sedersi. Ho individuato qualche sintomo. Qua e là. Un malessere durato poco, ma che pure c'è stato. Ma a tutti dico, attenti. A chi si siede io gli tolgo la sedia di sotto".

da la Repubblica.it

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ci manca solo la musica di sottofondo e siamo apposto...

grande manager ma bisogna ricordare anche che chi si loda si sbroda...

a leggere questo articolo sono tutte rose e fiori...

Prenditi cura degli amici, ma ancor piu dei tuoi nemici...

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ci manca solo la musica di sottofondo e siamo apposto...

grande manager ma bisogna ricordare anche che chi si loda si sbroda...

a leggere questo articolo sono tutte rose e fiori...

Forse non hai letto le ultime righe?

"a chi si siede gli tolgo la sedia da sotto il culo"...

Chiamali fiori! ;-)

<<Scarface>>

Non esiste peggior ignorante di quello convinto di sapere...

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Madames et Messieurs, Sa Majestè l'Imperateur Bonaparte...

Fa bene Napoleone a riconoscere quanto di buono è stato fatto, e fa molto bene a ricordare da dove sono venuti (o usciti) da poco, e fa bene a ricordare che lo scranno non è un diritto acquisito.

Mi fa piacere che accenni al fatto che bisogna "strutturalizzare" il cambiamento spalmando suui livelli + bassi. Ma la cutura di un'azienda non la cambi con il terrore.

Certo siamo in Italia, e puoi spesso non avere alternative...

ps: ecco quello che intendevo io quando dicevo che UNO dei mali di fiat, sicuramente il + ancestrale e difficile da estirpare è: "...genuflettersi al passato, né al vizio antico che era tutto torinese di sentirsi eternamente sudditi di una monarchia. Prima i Savoia poi gli Agnelli..." cosa che si somma all'operare in Italia, ed è indicativo e NON viziato dal solito bussare (nel solito modo che conosciamo) al paese nel momento del bisogno "+ personale che di sistema" ma proprio un richiamo a modificare il sistema, questo passo: "La Fiat di qui al 2010 ha le capacità per crescere ancora e per fare avanzare l'Italia, ma il paese deve creare le condizioni e il clima che consentano davvero il cambiamento. Dobbiamo giocare una partita in un mercato che non conosce il concetto dell'etica. Se non ci saranno le condizioni per giocarla, se ci saranno dei blocchi politici, finanziari o economici, la Fiat sposterà la sua partita da qualche altra parte. Oggi è in grado di farlo. La mia non è una minaccia. Dico soltanto che non posso fermare questa baracca".

"The great enemy of the truth is very often not the lie -- deliberate, contrived and dishonest -- but the myth -- persistent, persuasive and unrealistic"

(John Fitzgerald Kennedy)

"We are the Borg. Lower your shields and surrender your ships. We will add your biological and technological distinctiveness to our own. Your culture will adapt to service us. Resistance is futile!"

"Everyone is entitled to their own opinion, but not their own facts!"

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Ti sei preso una licenza poetica. :lol:

Ho scritto quello che lui non ha potuto dire! ;-)

Cmq (nel bene o nel male) sembra aver le idee abbastanza chiare...

E soprattutto sembra rendersi conto che il cambiamento (alla faccia di chi continua a sostenere che NULLA è cambiato e mai cambierà) va istituzionalizzato perchè imho si rende conto del rischio che via lui possa tutto tornare ad atrofizzarsi di nuovo.

(il che lo fa anche un po' "sborone" eh!! :-P)

<<Scarface>>

Non esiste peggior ignorante di quello convinto di sapere...

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Beh, la speranza fondata, da ciò che sin'ora sono risuciti a fare partendo dal DISASTRO, è che riescano a instillare un METODO anche ai dirigenti di domani con l'unico mezzo davvero funzionale: L'ESEMPIO!

Quest'uomo potrà anche essere criticabile pe alcuni aspetti (ma chi non lo è?), però ha idee chiare e fino ad oggi"vincenti"; spero vivamente che si molto in là da venire il momento in cui deciderà di dedicarsi ad altre sfide!

Passare per idiota agli occhi di un imbecille è voluttà da finissimo intenditore. - Georges Courteline -

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