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Angelo Allegri per Capital n. 12, 1994 –

«Me ne sono accorto sfogliando un atlante. Negli Stati Uniti ci sono quattro o cinque Parma, dall'Ohio al Michigan. Ho chiamato i miei e ho detto: diamoci da fare, qui non accetto scuse». Calisto Tanzi, l'accento parmigiano che prende il sopravvento nei momenti di relax, scherza. In America, però, ha deciso di fare sul serio. L'anno scorso, come biglietto da visita, ha mobilitato Luciano Pavarotti per un mega-concerto in Central Park. Quest'anno ha schiacciato il pedale dell'acceleratore: con un fatturato Usa che nel 1993 era di circa 27 milioni di dollari ne ha spesi otto in pubblicità e marketing. Nel 1995 la spesa raddoppierà. Il motivo? Semplice: secondo la Parmalat questo è il momento giusto. Per conquistare gli Stati Uniti, dopo l'Europa e l'America Latina. Così il gruppo emiliano ha deciso di sferrare l'attacco finale al mercato più difficile ed esigente del mondo.

(Il ''lattaio'' Cavalier Calisto Tanzi - Capital 1994)

Il quartier generale scelto per l'operazione è nel New Jersey, a una ventina di minuti dal centro di New York. E qui, sempre più spesso, si trasferisce Tanzi, a bordo dell'ammiraglia della Parmalat Usa, una Mercedes nera targata PRMLT ONE. Qui lo ha incontrato Capital, per farsi raccontare le tappe dello sbarco e per tracciare i confini di un gruppo da 3.600 miliardi di lire, che si estende dalla Russia al Cile, dal Parma calcio al Boca Junior di Buenos Aires.

Il mensile Forbes ha scritto che la sua è una sfida al marketing: vendere un prodotto di cui gli americani non sentono il bisogno (latte a lunga conservazione anziché fresco) in un contenitore che non amano (tetrapak anziché bottiglia).

Ognuno è libero di esprimere i propri giudizi e le proprie valutazioni. Anche di dire che vendere il nostro latte negli Usa è come vendere frigoriferi agli eschimesi. I risultati che stiamo ottenendo dimostrano proprio il contrario. In novembre e dicembre abbiamo raddoppiato le vendite rispetto all'anno scorso. E se vuole, le do un segnale: capita che i nostri camion escano la mattina con le vendite previste per la giornata e a mezzogiorno rientrino in magazzino per ricaricare. È successo a Brooklyn la settimana scorsa.

Che incidenza hanno le vendite americane sul fatturato?

Siamo ancora su numeri piccoli. Per il momento rappresentano il 4% ma già l'anno prossimo prevediamo di attestarci sull'8%. E abbiamo preso di mira solo la costa Est degli Stati Uniti, in pratica il 20% del mercato.

Ma perché avete deciso di giocare questa partita? L'immagine del garzone che la mattina lascia fuori dalla porta la bottiglia di latte fresco è uno dei più radicati stereotipi dell'american way of life.

Uno stereotipo, appunto. Ormai certe abitudini non ci sono più. I consumi sono cambiati. Forbes scrive che gli americani hanno grandi frigoriferi e non hanno bisogno di un latte che si conserva anche su uno scaffale. Saranno pure grandi ma la comodità di un prodotto come il nostro finirà con l'imporsi. Tra l'altro le nuove tecnologie che utilizziamo ci consentono di salvaguardare al massimo il sapore e la qualità del latte. II fatto è che conquistare anche una piccola quota di questo mercato si tradurrebbe in cifre interessantissime.

Meglio sfondare sul mercato americano o vincere lo scudetto con il Parma?

Potendo, tutt'e due.

Troppo facile.

Una risposta sincera non gliela posso dare; i tifosi del Parma mi ucciderebbero.

In termini di immagine il calcio cosa le ha dato?

Soprattutto una grande notorietà personale. Non solo in Italia ma un po' in tutto il mondo. In Brasile, per esempio, abbiamo una squadra, il Palmeiras; non riesco neppure ad andare al ristorante senza che mi chiedano dei giocatori, delle partite del campionato. E mi capita a San Paolo, a Salvador, ovunque vada.

Non nell'America del Nord, immagino.

Come no. La settimana scorsa ero in Canada e anche lì la stessa cosa. Da quando poi ricevono con satellite o tv via cavo le immagini dei principali campionati, in testa quello italiano, tutti sanno tutto e tutti vogliono sapere.

(Calisto a New York - Capital 1994)

La cosa le fa piacere o le dà fastidio?

Dispiacere non fa. Certo che però essere conosciuti e apprezzati per una squadra di calcio e non per quello che si è fatto in 30 anni di lavoro fa un po' pensare.

Notorietà a parte, però, il rapporto tra grandi aziende e sport, almeno in Italia, è entrato in una fase nuova. Il gigantismo e i grandi investimenti del passato sono un ricordo. II pallone si è sgonfiato.

Questo potrà riguardare altri ma non noi. Siamo sempre stati attentissimi a conciliare il nostro impegno con i dati economici dell'azienda e dei diversi sport. Quando ci siamo accorti che lo sforzo rischiava di diventare eccessivo ci siamo tirati indietro. Siamo usciti dalla Formula Uno, dalla pallavolo, dal basket. Oggi, calcio a parte, abbiamo solo la squadra campione d'Italia nella pallavolo femminile, il Matera, che va davvero forte.

La vera svolta in Italia è, però, stata quella della politica. Come giudica il nuovo governo?

Credo che gli italiani abbiano fatto una scelta e che al governo vadano dati il tempo e la possibilità di essere giudicati dai risultati. Certo, e a Berlusconi prima o poi dovrò pur dirlo, non tutte le persone che ha scelto mi sembrano adeguate alle responsabilità. Ma l'intero governo finisce per essermi più simpatico quando vedo gli attacchi pregiudiziali di certi giornali.

E quale è secondo lei l'atteggiamento che deve tenere la Confindustria?

Credo che la Confindustria debba cercare di dare una mano al governo e mi risulta che lo stia facendo. Gli industriali hanno soprattutto bisogno di stabilità.

Anche lei, come Gianni Agnelli, ritiene che gli industriali siano governativi per definizione?

lo credo che un industriale abbia diritto di impostare un rapporto corretto con il potere esecutivo. Di fatto in tutto il mondo è così: un governo forte che tuteli quelli che poi in ultima analisi sono gli interessi di tutti.

(La passione per il calcio - Capital 1994)

Tornando alla svolta della politica. Lei non ha mai nascosto le sue simpatie per la Democrazia cristiana. Ed è tra l'altro amico personale di De Mita e di altri esponenti Dc. Come valuta oggi la politica italiana dell'ultimo decennio?

Ripeto quello che ho sempre detto. Culturalmente e politicamente mi sono sempre riconosciuto nell'area politica cattolica. Certo, quello che è emerso di recente ha lasciato tutti perplessi. Bisogna distinguere però tra idee e persone e tra persone e persone. E tutto sommato credo che sia ancora presto per dare un giudizio definitivo. Allontanandosi si finirà per avere un'immagine più articolata di questo periodo, che personalmente non giudico così negativo visto che ci ha consentito dal dopoguerra in poi di fare grandi miglioramenti economici e sociali. Certo, ogni cosa ha il suo tempo e probabilmente il vecchio sistema aveva fatto il suo.

Cosa pensa di Buttiglione e del suo sforzo di tenere in vita e ricostruire il partito dei cattolici?

Buttiglione lo conosco da tempo. Mi sembra innanzitutto una persona molto gradevole. Mi sembra anche che sappia il fatto suo. E il suo sforzo via incoraggiato. Sono convinto che il partito dei cattolici abbia un ruolo importante all'interno della società italiana. L'ho sempre pensata così e non ho cambiato idea.

Veniamo all'economia. Questo è il momento dell'export, trainato dalla debolezza della lira...

Una lira che è senza dubbio sottovalutata. Arriviamo da un periodo con inflazione al 3-4%. All'estero sarà stata di un punto in meno e invece nei confronti di alcune monete la lira ha perso anche il 50% del suo valore. Una situazione i cui vantaggi sono da considerare per il Paese temporanei.

Il problema dell'economia italiana probabilmente è proprio quello: non limitarsi a costruire su fattori contingenti. Ma creare una presenza globale radicata e duratura nei diversi mercati.

Da questo punto di vista il nostro è un caso particolare. Nel nostro settore esportare e basta è molto difficile. Se ci si vuole sviluppare è necessario creare sedi e stabilimenti all'estero.

Quanto incide l'attività internazionale nel suo gruppo?

Oggi siamo intorno al 46-48%. Ma già l'anno prossimo puntiamo a superare il 50. E in prospettiva la taglia giusta potrebbe essere pari all'80% dell'attività all'estero e 20 in Italia.

Anche perché in Italia, data la vostra grande quota di mercato, incominciate ad avere problemi di antitrust.

Forse per il latte. Ma potremmo pensare di espanderci in altri settori vicini.

Non sempre la diversificazione si è rivelata facile. Nel caso dei prodotti da forno avete stentato...

Guardi: siamo leader nel latte e nella panna, co-leader per gli yogurt. E per quanto riguarda i prodotti da forno ci avremo messo un po' di tempo ma siamo ormai la terza marca dopo Barilla e Ferrero. E continuiamo a crescere. Un risultato che ci soddisfa.

Nelle privatizzazioni delle grandi aziende dell'alimentare di Stato avete giocato in una parte un po' defilata.

Non mi sembra proprio. Tanto per cominciare abbiamo acquistato una centrale del latte come quella di Genova. Se si riferisce invece alle partecipazioni statali abbiamo fatto le nostre proposte. In tutti i casi siamo stati attentissimi a commisurare ciò che offrivamo al valore delle sinergie che avremmo potuto realizzare. Quindi le abbiamo anche ritirate se il prezzo ci sembrava troppo alto. Per il momento i più bravi sono stati proprio quelli che hanno venduto: sono riusciti a strappare il prezzo migliore.

E chi ha comprato a quel prezzo, allora ha fatto un errore?

Evidentemente attribuiva un valore maggiore alle sue potenziali sinergie.

Nel caso dei Benetton e di Leonardo Del Vecchio della Luxottica non sono facilmente individuabili.

Qui c'erano delle specifiche esigenze di diversificazione nel settore distributivo. Per noi sarebbe stato francamente complicato controllare allo stesso tempo distribuzione e produzione.

(''E lasciateme magna tutto...'' - U.Pizzi)

A proposito. Il rapporto tra produzione e distribuzione oggi è delicatissimo. Lei una volta ha detto che ha dedicato tanta attenzione alla costruzione del marchio Parmalat perché aveva visto, quando era ai primi passi, la scomparsa dell'industria del passato di pomodoro: senza un marchio forte i produttori della sua zona erano stati spazzati via. Ora con l'arrivo dei marchi commerciali creati dalla grande distribuzione non ha paura che per l'industria di marca si preparino tempi difficili?

Questo è uno dei temi a cui un'azienda come la nostra deve fare più attenzione: l'importanza del marchio. Che va sviluppato puntando su innovazione e qualità. D'altra parte però non mi sento neppure di drammatizzare. Ci sono i flussi e i riflussi. Questo è un momento in cui in Italia le private labels vanno per la maggiore. In un mercato come quello statunitense il flusso inizia a cambiare direzione.

Tornando alle privatizzazioni lei ha comprato qualche azione di Credit, Comit o Ina?

No.

Come mai? Non crede alla bontà di queste operazioni?

Il problema non è questo. Sia in termini di tempo, sia di risorse dobbiamo soprattutto concentrarci sulla nostra attività fondamentale.

Alcuni suoi colleghi imprenditori, di dimensioni minori delle sue, hanno scelto di partecipare ugualmente. Se non altro per essere presenti a qualche tavolo che conta.

Per sedersi a un tavolo e contare qualcosa l'impegno deve essere rilevante. non bastano 500 milioni o un miliardo. Partecipare per dire c'ero anch'io non ha molto senso.

Eppure un settore in cui lei non si è mai tirato indietro c'è quello dei mass media. Dal possibile acquisto del Resto del Carlino e della Nazione alla creazione di un terzo polo televisivo con Euro Tv e Odeon, fino alla partecipazione nel quotidiano l'Informazione.

Il discorso è completamente diverso. Negli esempi che fa c'era l'obiettivo di contribuire a dare voce all'area della cultura cattolica in Italia. Un discorso iniziato con i Paolini a Telenova e poi proseguito via via. Spesso ci è stato chiesto: qualche volta abbiamo detto sì. Altre no. Con monsignor Tonini, da poco nominato cardinale, si parlò di un possibile ingresso nel quotidiano Avvenire. Solo che in quel caso abbiamo fatto una valutazione o buttarci con tutto il nostro impegno, e non potevamo, o farci da parte.

Ma i giornali le piacciono?

No, non particolarmente. Però, sono uno strumento importante. Anche se in Italia l'editoria cattolica ha sempre avuto dei problemi e in quanto poi alla televisione orientata in base a principi cattolici pare proprio che la gente non ne voglia sapere. Per quanto mi riguarda non mi sembra proprio un bell'esempio che alla televisione trasmettano un film come Basic Instinct, che io mi sono ben guardato dal vedere. Quindi qualcosa ho cercato di fare.

Nelle sue iniziative le è capitato anche qualche compagno di strada scomodo, come Edoardo Longarini, il costruttore di recente condannato.

Gli accordi erano che in Odeon Romagnoli rilevasse la mia quota. Questo non accadde e quindi arrivò Longarini.

Anche l'ultima avventura, però, non pare fortunata. Mi riferisco a quella dell'Informazione. Il giornale ha una diffusione insoddisfacente e ora problemi di ricapitalizzazione.

Di nuovo: la mia partecipazione è da spiegare nel quadro che lo ho delineato prima. Era una voce cattolica che nasceva. La somma impegnata non era rilevante, non me ne sono mai occupato direttamente all'inizio e non l'ho fatto neanche di recente.

(Sor Calisto con la sua fiammante Ferrari - Capital 1194)

Niente nuovi impegni nel settore editoriale, dunque. E quelli in azienda?

Innanzitutto gli Stati Uniti. Lo sbarco è appena iniziato.

E poi, l'Est europeo?

L'Est, ma nel senso di Cina. Da New York abbiamo allacciato una serie di contatti con il primo gruppo canadese nel settore dello yogurt. L'obiettivo è quello di fare qualcosa insieme. C'è un mercato di un miliardo di persone dai consumi non paragonabili a quelli americani ma in via di rapida occidentalizzazione. Tutto sommato, però, sarebbe meglio non parlarne. Le cose prima si fanno e poi si dicono.

www.dagospia.com

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