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[STORIA] Germania e Italia, storia di un amore impossibile


Dannatio

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Colgo l'occasione delle ultime acquisizioni da parte di VW/Audi in terra nostrana per pubblicare un articolo di Francesco Lamendola, che avevo letto tempo addietro e che, IMHO, da qualche spunto ulteriore di riflessione al rapporto fra noialtri e gli amati/odiati mangiapatate!

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Come osservava il grande storico Ferdinand Gregorovius, autore di una monumentale – e anche letterariamente pregevolissima – Storia della città di Roma nel Medioevo – il popolo tedesco e quello italiano, che insieme sono giunti all’unità e all’indipendenza nazionale, hanno condiviso, nel bene come nel male, gran parte della loro storia, tenuti uniti da un legame ideale tenace, che travalica le contingenze e sembra racchiudere qualcosa di perenne.

L’idea dell’Impero, in particolare, passata da Roma alla Germania, ha rappresentato un legame ideale così forte e durevole, che ha praticamente costretto le due nazioni a rimanere strette l’una al destino dell’altra: con gli imperatori tedeschi, da Ottone il Grande ad Arrigo VII di Lussemburgo, che trascurano gli affari di casa loro per inseguire il miraggio italiano e con i Comuni italiani che lottano per l’autonomia contro l’imperatore, ma senza mai rinnegarne la suprema autorità e senza mai aspirare alla completa indipendenza; come se, appunto, una forza misteriosa e fatale avesse così deciso, a dispetto di tutto e anche della formidabile barriera alpina.

Pertanto, mentre nel resto d’Europa sorgevano le monarchie nazionali, la Germania e l’Italia, tenute strette dal comune ricordo del sogno universalistico dell’Impero, sono giunte in ritardo nel perseguire le rispettive unità nazionali e sono state a lungo campo di battaglia delle altre potenze, toccando il punto più basso l’una – l’Italia – con le guerre tra Francesi e Spagnoli del XVI secolo, l’altra – la Germania – con la rovinosa Guerra dei Trent’Anni, un secolo dopo, quando essa fu corsa in ogni senso da eserciti spagnoli, svedesi, francesi e di altre nazioni.

Dicevamo del notevole ritardo con cui la Germania e l’Italia hanno conosciuto la creazione dello Stato moderno, su base nazionale, nel corso dell’Ottocento; ritardo che si è ripercosso nella loro collocazione sulla scena internazionale, ivi compreso il fenomeno del colonialismo (quando, cioè, gran parte della spartizione coloniale era già stata fatta e la parte del leone era toccata alla Gran Bretagna e alla Francia), cosa che può aver svolto il suo ruolo nella nascita della Triplice Alleanza e, quindi, nello scoppio delle due guerre mondiali.

Uno storico di formazione marxista, abituato a far dipendere gli orientamenti spirituali di una data società dal suo modo di produzione, sarebbe portato ad attribuire il “ritardo” italiano e tedesco al più lento sviluppo di un ceto borghese “moderno”, ossia spiccatamente imprenditoriale; e, di conseguenza, a un ritardo nello sviluppo del capitalismo. Ma una tale conclusione urta con la semplice constatazione che già nel 1914 la borghesia tedesca aveva surclassato non solo quella francese, ma anche la britannica, e che l’espansione dell’economia capitalista in Germania era in grado di porre la candidatura di quest’ultima al dominio mondiale.

Conviene perciò ammettere che vi era qualcosa, nello spirito nazionale tedesco – e, per altri versi, in quello italiano – che configgeva con la cultura della modernità, così come essa si era venuta formando ed elaborando in Europa, soprattutto a partire dall’Empirismo inglese e dall’Illuminismo francese.

Tanto per fare un esempio, sia nella letteratura tedesca che in quella italiana si trova un consistente filone della narrativa e della poesia che guarda con malinconia, disorientamento e pessimismo all’avanzata del “progresso”, mito fondante dell’ideologia della modernità: basterebbe fare i nomi, pur tra loro diversissimi, di Nietzsche, di Kafka, di Musil, di Roth, di Wiechert; ma anche degli Scapigliati, di Verga, dello stesso Carducci maturo (quello de Il comune rustico, per intenderci, e non già quello dell’Inno a Satana), di Pirandello, di Svevo, di Tozzi, e poi avanti, fino a quello di Cassola e oltre. Niente di simile si trova, in eguali proporzioni e con pari intensità, nella letteratura inglese o in quella francese.

Se tale fu l’incrociarsi dei destini italiani e tedeschi sul piano politico, dagli ultimi anni di vita dell’Impero Romano d’Occidente e dai regni barbarici degli Ostrogoti e dei Longobardi, su su fino al compimento delle rispettive unità nazionali, nella seconda metà del XIX secolo, e poi alla terrificante e disastrosa avventura dell’Asse per l’egemonia planetaria, nella seconda guerra mondiale, non meno intenso e sofferto è stato il legame culturale e spirituale fra i due popoli, particolarmente sentito all’epoca del Romanticismo.

Da Goethe e da Winckelmann in poi, l’Italia era la Terra Promessa degli intellettuali tedeschi, dei poeti, degli artisti, degli scrittori, il cui numero è legione: da von Platen al già citato Gregorovius, passando per quel Roeseler Franz che ci ha dato, attraverso i suoi acquarelli, l’ultimo ritratto della vecchia Roma, prima che la ristrutturazione urbanistica portata dalla modernità la facesse scomparire per sempre.

Per dire la verità, bisogna constatare che questo amore è stato per lo più, se non proprio a senso unico, prevalentemente degli uomini di cultura tedeschi verso l’Italia, che non di quelli italiani verso la Germania. Il grande Teodorico lo avrebbe trovato perfettamente naturale, dato che nelle sue leggi egli disse di considerare normale che un Goto volesse assomigliare a un Latino, ma riprovevole che un Latino volesse assomigliare ad un Goto; riconoscendo, così, l’indiscutibilità della supremazia culturale di Roma ed il suo eterno fascino verso il mondo germanico.

Anche il caso di Dante è stato sovente strumentalizzato o mal compreso: perché non di amore verso la Germania si trattava per il grande fiorentino, ma di fede nella necessità storica dell’Impero. Il fatto che gli imperatori del XIV secolo fossero tedeschi era, per Dante, del tutto irrilevante, tanto universalistica e sovra-nazionale era la sua concezione politica; ben diversa, in questo senso, da quella esplicitamente nazionale e anti-tedesca di Petrarca.

Eppure, fino alla metà del XIX secolo e forse ancora oltre, anche da parte italiana esisteva una sia pure più contenuta simpatia nei confronti della Germania (non dell’Austria, per le note ragioni politiche): non aveva forse il Manzoni dedicato proprio la più patriottica delle sue liriche, «Marzo 1821», alla memoria del poeta-soldato tedesco Theodor Körner, caduto combattendo contro le armate napoleoniche per la libertà della sua patria?

Ma, nel complesso, nulla di paragonabile, da parte italiana, al trasporto entusiastico che manifestavano verso l’Italia gli intellettuali tedeschi.

C’è un quadro di Friedrich Overbeck, «Germania e Italia», che bene raffigura questo amore bruciante dell’anima tedesca verso l’anima italiana: amore incompreso e spesso indesiderato, talvolta frainteso, mai pienamente ricambiato; amore impossibile, insomma.

Il quadro è del 1828 e raffigura due fanciulle, allegorie dei due popoli, che siedono l’una accanto all’altra, tenendosi per mano, sullo sfondo dei due rispettivi paesaggi “tipici”, il nordico e il mediterraneo. Ebbene, osservandole anche solo di sfuggita, non si può non notare al volo quale delle due sia l’amante e quale l’amata: ardente e volitivo lo sguardo della bionda fanciulla tedesca, languido e abbandonato quello della bruna ragazza italiana coronata di alloro, che sembra quasi in cerca di protezione e di conforto alle sue pene segrete.

Un amore precario, quindi: cementato, a ben guardare, più dalla comune reazione all’Illuminismo di matrice francese, ma di diversissima origine nei due casi – romantica la tedesca, classicista l’italiana – che ha fatto della cultura di queste due nazioni, a ben guardare, una sorta di prolungamento dei valori premoderni fin nel cuore della modernità; se è vero – come è vero – che la modernità è figlia di Cartesio prima, di Voltaire e di Rousseau poi. Ed è così che si spiega anche la convergenza tra l’idealismo filosofico tedesco e quello italiano; tra Fichte, Schelling ed Hegel da una parte, e Gioberti, Rosmini e, poi, Croce, dall’altra.

Ancora.

Se la modernità è rappresentata, economicamente e politicamente, dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, è altrettanto vero che sia il fascismo, sia il nazismo (così diversi per tanti altri aspetti, giova ricordarlo sempre) si possono entrambi considerare come aspetti di una comune reazione, o come parti di una comune reazione, all’urbanesimo, al materialismo, all’utilitarismo, insomma alle due grandi manifestazioni politico-economiche della tarda modernità: il capitalismo speculativo e il bolscevismo; in nome di un mito ruralista che voleva riproporre, quasi in chiave virgiliana, la sanità morale della vita dei campi e del ritorno ai valori patrii, alla corruzione e alla decadenza tipiche della borghesia urbana cosmopolita, affarista, cinica e infettata dalla “malattia” del giudaismo.

In questo senso, non si può considerare casuale il fatto che la Germania e l’Italia abbiano finito per stringersi l’una all’altra in una alleanza politica e militare – quella dell’Asse prima, del Patto d’Acciaio poi – in vista di una resa dei conti con il mondo del denaro e della macchina, rappresentato dalle potenze plutocratiche occidentali nonché dalla sua versione in chiave rivoluzionaria, ossia lo stalinismo in Unione Sovietica (cfr. il nostro precedente articolo Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler).

Schematizzando alquanto, ma forse non travisando una sostanziale verità di fondo, potremmo quindi considerare la storia europea dell’ultimo secolo come il luogo dello scontro, ideale e materiale, fra due opposte e inconciliabili visioni del mondo: quella materialista e razionalista dell’Inghilterra e della Francia (le cui radici sono, oltre che in Cartesio e Spinoza, in Francis Bacon, Hobbes, Newton, Locke e Hume) e quella spiritualista e idealista della Germania e dell’Italia (che parte da Paracelso, Bruno, Campanella e arriva fino a Heidegger e Gentile, passando per Vico).

Se nel quadro che stiamo delineando vi è una plausibilità di fondo, allora bisogna riconoscere che il “Nuovo ordine europeo” propagandato dai pubblicisti dell’Asse negli anni della seconda guerra mondiale non nasceva dal fortuito incrociarsi delle mire di potenza della Germania nazista con quelle dell’Italia fascista, ma nasceva da una intima logica che aveva condotto le due nazioni all’appuntamento con la storia nell’ora della contesa per il potere mondiale.

Del resto, il fatto che scrittori e poeti come il norvegese Knut Hamsun, come i francesi Céline e Drieu La Rochelle, come l’americano Ezra Pound o come il romeno Mircea Eliade, per non parlare di uomini politici come Quisling, Pétain, Léon Degrelle, Mosley, abbiano, sia pure in tempi e modi diversi, aderito a quel progetto o si siano riconosciuti in quei valori (“il sangue contro l’oro”), dimostra che si è trattato di fenomeni e tendenze culturali e spirituali che, pur facendo perno su due realtà nazionali ben delimitate, possedevano nondimeno una certa carica espansionista e perfino potenzialmente universalistica (basterebbe pensare alla diffusione delle ideologie naziste e fasciste in Sud America, nel Medio Oriente arabo e in altre aree del mondo).

Anche nella reazione così rabbiosa di Hitler al tradimento del re e di Badoglio dell’8 settembre 1943, non è difficile scorgere i tratti dell’amore deluso; perché di vera fascinazione si era trattata, da parte del dittatore tedesco, nei confronti di Mussolini: su questo punto, tutti gli storici sono ormai d’accordo. Così come sono d’accordo sul fatto che la liberazione del Duce dal Gran Sasso non fu soltanto dettata da ragioni di Realpolitik, ma anche da un autentico sentimento di amicizia e devozione del Führer per il suo antico “maestro” italiano: sissignori, proprio lui, Hitler, l’uomo dal tenebroso cuore di ghiaccio. Amicizia e devozione, peraltro, che non furono mai ricambiate: sempre Mussolini ebbe nei suoi confronti sentimenti di diffidenza e scarsa simpatia.

Dopo il 1945 le strade dei due popoli, per la prima volta dai tempi di Tacito e di Odoacre, si sono parzialmente separate: in un’Europa costretta a ripartire da zero, con la Gran Bretagna sempre più arroccata nel ruolo di sentinella avanzata degli Stati Uniti e con la Francia costretta a cercare ovunque, perfino verso l’Unione Sovietica («L’Europa va dall’Atlantico agli Urali», diceva De Gaulle), una “sponda” per recuperare margini di autonomia nei confronti della strapotenza dell’alleato d’Oltreoceano, i secolari legami italo-tedeschi si sono allentati e, in parte, addirittura sciolti, forse per sempre.

Pesa, nella memoria collettiva degli Italiani, il terribile periodo del 1943-45, con le sue stragi e le sue barbariche violenze; e pesa del pari, nel ricordo dei Tedeschi, il “tradimento” di Badoglio, nel bel mezzo di una lotta durissima per la vita e per la morte contro la più ampia coalizione di popoli che si fosse mai vista.

Rimangono la sincera ammirazione dei Tedeschi per l’arte italiana, nonché la loro predilezione per le belle (un tempo) e relativamente economiche spiagge italiane; e rimane, permeata di invidia, l’ammirazione degli Italiani per l’efficienza tedesca, per la buona amministrazione tedesca, per i risultati dell’industria e dell’economia d’Oltralpe, con un operaio della Volkswagen che guadagna almeno una volta e mezzo lo stipendio di un operaio della FIAT, a fronte di un costo della vita che non è poi tanto più alto rispetto al nostro.

Si ritroveranno, un giorno, queste due amanti ritrose e conflittuali?

Per ora, quello che si può vedere è che la Germania ha subito, più dell’Italia (e questa è stata per molti una sorpresa), il rullo compressore dell’americanizzazione, entrando a vele spiegate in quella tarda modernità post-industriale cui l’Italia, invece, offre ancora qualche sia pur debole resistenza. Il fatto stesso che, in Italia, siano ancora molte le persone che non conoscono l’inglese, o che lo parlano poco e male, dimostra che l’Italia è stata, finora, meno pesantemente americanizzata della Germania; ma che, per la stessa ragione, non è entrata a pieno regime, anche a livello psicologico, nei processi della modernità avanzata: ciò che, da un punto di vista materiale, appare certamente come un ritardo.

Una cosa possiamo immaginare, comunque, con relativa sicurezza.

Se mai verrà il tempo in cui l’Europa deciderà di ritrovare se stessa; se tornerà a porsi con fierezza verso la propria cultura e la propria civiltà, e si libererà dai suoi assurdi complessi di inferiorità verso l’America: allora sia la Germania che l’Italia torneranno a svolgere un ruolo centrale nella rinascita spirituale di questo continente.

E si ritroveranno: come due vecchi innamorati che, pur dopo mille litigi e incomprensioni, non hanno mai smesso, nel loro intimo, di volersi bene.

Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent'anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos' hanno prodotto? Gli orologi a cucù.( O.Welles)

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L' alterna onnipotenza delle umane sorti,

sembra aver portato le due Culture ad un rapporto simbiotico in cui l'una vede nell'altra un qualcosa che sente mancare a se stessa, in un gioco altalenante e compenetrato di invidia ed ammirazione,

che si rincorrono spesso sovrapponendosi.

Albionici e Galli, nella loro boria, paiono ritenersi invece altezzosamente perfetti già di per loro.

Gente che inseguiva nuda marmotte mentre noi già s'ammazzava un Giulio Cesare...

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Molto molto interessante, grazie. ;)

Letteratura significativa e consigliabile:

- Joseph Roth, come detto sopra: La cripta dei cappuccini, Il Leviatano

- Robert Musil: L'uomo senza qualità, I turbamenti del giovane (o allievo) Torless

- Primo Levi: Se questo è un uomo, La tregua

- Beppe Fenoglio: Il partigiano Johnny

- Wolfang Goethe: Le affinità elettive

- Heinrich Boll: Opinioni di un clown

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Io credo fondamentalmente che il tedesco di oggi non invidi praticamente niente dell'italiano

della serie bel clima buon mangiare ma fondamentalemente sottosviluppati corrotti

e soprattutto per sempre inaffidabili. Gente tedesca addirittura con madre italiana

mi ha detto che ci vede come quelli chiassosi simpatici, ottimi per far festa, ma poi lamentosi nel lavoro

e poco efficienti. Indiscutibilmente loro si sentono superiori a noi.

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Un pò di anni fa, c'era stata una polemica enorme qui a GE perchè ad un convegno organizzato sui rapporti Italia-Germania , la foto sul manifesto mostrava artiglieri Italiani e tedeschi che mettevano in batteria un cannone a Tobruk.

Eppure non c'era niente di scandaloso, quella parte di guerra l'abbiamo fatta insieme.

In generale il tedesco stima e ammira le capacità di arrangiarsi e di improvvisazione dell'italiano medio, ma disprezza ( giustamente ) la sua classe dirigente politica economica e militare, giudicandola inadeguata, pressapochista ed incompetente.

L'italiano ammira nel tedesco l'organizzazione e l'ordine, ma in fondo lo gurda dall'alto al basso per la sua mancanza di fantasia ed inflessibilità.

In fonod , ad entrambi ci ha fregato il Romanticismo.

Archepensevoli spanciasentire Socing.

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da corriere.it

L'arte politica: cosa resta dopo Guernica

Settantacinque anni fa i tedeschi bombardavano la città basca. Cinque giorni dopo Picasso cominciava a realizzare decine di disegni.

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«L’autore di Guernica è lei?». Alla domanda dell’ufficiale nazista Picasso risponde: «Non sono io, siete voi gli autori di Guernica». Un’affermazione che mira a mettere in discussione il principio dell’autonomia dell’arte su cui le avanguardie primonovecentesche avevano fondato le loro poetiche. Per sottolineare l’importanza del dialogo con la Storia.

26 aprile 1937. Il Terzo Reich ha bombardato la piccola città basca di Guernica: 2000 morti. Sull’onda di quel massacro, in preda a un sofferto furore creativo, Picasso — tra l’1 e il 9 maggio — realizza circa 100 disegni. In seguito, dipinge un olio su tela di ampie dimensioni, destinato a decorare il Padiglione spagnolo dell’Esposizione internazionale di Parigi. Pone un’unica condizione: la sua opera dovrà «rientrare» in Spagna solo dopo la morte di Franco (ora è al Reina Sofia di Madrid).

Dinanzi a noi è il gesto di un pittore che sa farsi inviato speciale. Immortala un episodio «vero», di cui salvaguarda l’impatto emotivo. Consegna una testimonianza dal vivo, rappresentando una devastazione. In lui, c’è l’orrore di chi è costretto ad assistere a uno spettacolo insostenibile. Con rabbia e indignazione, Picasso denuncia uno sterminio. Dichiara: «Nella tela a cui sto lavorando, che chiamerò Guernica, (…) io esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha sprofondato la Spagna in un oceano di dolore e di morte». Eppure, precisa: «Io non faccio discorsi. Io parlo con la pittura». Per un verso, infatti, «filma» in diretta una catastrofe. Per un altro verso, la rimodula, dando vita a un cubismo socialista. Muove da una visione immediata, per poi spingersi verso territori altri: è come se dimenticasse ciò che ha percepito. Parte da quel metallo incandescente che è la realtà, per trasgredirne la riconoscibilità. Servendosi del filtro della trasfigurazione, riscrive in chiave lirica gli effetti del raid tedesco. Non esibisce drammi: li evoca, li lascia intuire. Depura l’attualità di ogni letterarietà, per coglierne lo spessore metafisico. Per dire l’angoscia, utilizza il bianco e nero: un modo, ha spiegato Argan, per «tagliare il rapporto dell’uomo col mondo». Inventa un ermetico palinsesto di segni, denso di riferimenti alla storia dell’arte e al cinema. Una complessa macchina pittorica, che ha la medesima forza delle tragedie greche e dei romanzi di Dostoevskij. Un’allegoria in cui si «scolpisce» il dolore, rendendolo eterno, definitivo, senza redenzioni. Ecco l’epica del male: assoluto, senza tempo. Si spalanca il volto di un inferno privo di protezione divina.

Senza farsi ingabbiare nelle secche dell’ideologismo, Picasso offre un affresco dall’interno della cronaca. Propone, ha osservato Herbert Read, un «monumento alla disillusione, alla disperazione, alla distruzione». A questo rinviano le bocche urlanti che ritroviamo nel dipinto: un motivo da sempre amato dagli artisti (Leonardo, Sofonisba Anguissola, Caravaggio, Rembrandt, Munch, Bacon). Ovunque, uomini e animali che spalancano la bocca. Nessun canto è più possibile. Non c’è più quiete. Solo grida atroci, che spezzano armonie ed equilibri. È l’apocalisse.

E, oggi, 75 anni dopo? Sarebbe possibile un’opera «politicamente» tanto alta? In effetti, Guernica è una parentesi nella produzione di Picasso («Il mio lavoro non è simbolico… solo Guernica lo è»). Ed è un’eccezione nella geografia delle avanguardie del XX secolo, che è stata dominata dalla convinzione secondo cui l’artista, oramai libero da vincoli etici e religiosi, sceglie la marginalità rispetto alle dinamiche della storia: si disinteressa di ogni ipotesi comunicativa, per dare ascolto solo alla sua ispirazione, attento a trasgredire norme e consuetudini stilistiche.

E, tuttavia, negli ultimi anni, sta maturando un nuovo fenomeno. Nell’età del disincanto e del cinismo, l’arte torna a farsi interpretazione di mondo, discorso impegnato, dispositivo sorretto da ragioni civili, strategia per sottrarsi al soggettivismo e all’individualismo. Esercizio per manifestare precise prese di posizione sul reale. Proliferano gli «eredi di Picasso». Che, però, sembrano non avere più veemenza, tensione. Tendono a filtrare i traumi, a conservare una distanza dai fatti. Le loro opere «sembrano» estreme, ma non nascono da ferite autentiche.

Tra gli artifici linguistici ricorrenti, la testimonianza in prima persona: Ai Weiwei, che usa il suo corpo come strumento per sfidare il potere. L’accatastamento: Hirschoorn, che accumula reliquie del presente nei suoi rifugi postatomici. La provocazione e il motto di spirito: Cattelan, che, in Novecento, sospende al soffitto un cavallo imbalsamato. Il videoclip pubblicitario: Vezzoli che, in Democracy, simula un’inverosimile campagna elettorale americana. La deformazione fumettistica: Botero, che rilegge gli orrori di Abu Grahib. La sublimazione: Shirin Neshat, che, nei suoi video, per analizzare le condizioni della cultura islamica, salda documentazione ed eleganza compositiva.

Tra le vette dell’arte politica contemporanea, i film di animazione di William Kentridge, con costanti i riferimenti all’apartheid. Personnes di Christian Boltanski: un altare all’Olocausto, una sorta di campo di concentramento occupato da mucchi di vestiti usati, riposti dentro recinti. E, poi, Italia in croce di Gaetano Pesce: di fronte ad alcuni inginocchiatoi, su un altare, al posto del crocefisso classico, una scultura del nostro Paese (di resina rossa), che sta per sciogliersi, lasciando cadere gocce di sangue, mentre, in sottofondo, si sente un rantolo. Infine, Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer (all’Hangar Bicocca di Milano). Forse, l’opera più tragica del nostro tempo. Torri imponenti, solenni, imperfette, instabili, abbandonate. Resti di una catastrofe avvenuta, implicita memoria dell’11 settembre 2001.

Come Picasso, anche Kiefer allude a un evento epocale: ma non lo rispecchia fedelmente. Egli sa che è possibile abitare la Storia imboccando sentieri laterali e misteriosi, senza diventarne servitore. Perché, come ha scritto Milan Kundera, «la Storia (…) con i suoi rivolgimenti, le sue guerre, le sue rivoluzioni e controrivoluzioni (…) non interessa (…) in quanto oggetto da descrivere, denunciare, interpretare; (…) affascina perché è come un riflettore che ruota intorno all’esistenza umana e getta luce su di essa».

Vincenzo Trione

L

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Indiscutibilmente loro si sentono superiori a noi.

Come lo si sentono gli Inglesi, gli Americani, i Francesi, etc... della serie, "l'erba del vicino e' sempre piu' verde"

e' un atteggiamento molto nostro... salvo in alcune cose molto specifiche dove tiriamo fuori le "palle" anche noi. :D

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Beschleunigung ist, wenn die Tränen der Ergriffenheit waagrecht zum Ohr hin abfliessen

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