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I raid di Gente Motori - N.7 - Due Lancia Delta sui sentieri di "Ombre rosse"


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Inviato (modificato)

Passata qualche settimana :D dall'ultimo upload riguardo i raid di Gente Motori (che son tantissimi, motivo per cui col tempo riprenderò la serie saltando però avanti e indietro, in base a ciò che mi capita fra le mani) torno ora, finalmente con un po' di tempo libero, ad ammorbarvi :D con le mitiche avventure vissute da Gianni Marin in giro per il mondo, al volante di vetture di ogni tipo, epoca e marca.

 

Lo stile del mitico Gianni lo conoscete già. I suoi articoli forse non erano i primi da prendere in considerazione se l'intento era quello di analizzare in maniera fredda e imparziale una vettura (specialmente quando era italiana) perchè i complimenti erano sempre tanti, le critiche poche e fra le righe si leggeva sempre l'intenzione di far contenti tutti :), ma non c'è dubbio che se non ci avesse pensato lui, a trasformare questi "sogni" in realtà, se avessimo dovuto affidarci soltanto al freddo, rigoroso Quattroruote, queste avventure che restano nella storia dell'auto italiana non le avremmo mai vissute, seppur indirettamente.

Restano quindi oggi - per chi li ha in casa, come il sottoscritto :D, e per chi naviga in posti ove il sottoscritto si lascia andare su pagine e pagine di ricordi :D  - dei documenti eccezionali, testimoni di un mondo dell'auto, specialmente quella italiana, che non tornerà più.

 

Va bene, termino qui la pomposa introduzione: scusatemi, ma quando guardo  le foto di auto italiane in luoghi in cui probabilmente non sarebbero mai arrivate se non fosse stato per lui, sento il desiderio di celebrare ancora una volta il lavoro di quel dinamico, furbacchione, mondano e affabile "diretùr".

Grazie, Gianni.

 

PONY EXPRESS RAID

 

DUE DELTA SUI SENTIERI DEI COWBOYS DI “OMBRE ROSSE”

 

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Di Gianni Marin

 

Collaborazione tecnica: Carlo Massagrande

Ricerche storiche e turistiche: Bruna Marin

Servizi fotografici: Vanni Belli

 

Cercansi giovani, magri, robusti, tenaci, che non abbiano superato i diciott'anni d'età, esperti cavalieri, disposti, ogni giorno, a rischiare la vita. Sarà data la precedenza agli orfani.”

 

Cartelli con questo annuncio comparvero nelle città del Sud degli Stati Uniti nel marzo del 1860.

Aveva provveduto a diffonderli la “Pony Express Company”, una società che si proponeva di avviare un collegamento postale tra St. Joseph, nel Missouri e Sacramento, in California, dalle cui banchine la posta sarebbe stata poi imbarcata alla volta di San Francisco.

Come molte altre conquiste e avventure umane, il “Pony Express” (questa la denominazione ufficiale dello storico servizio di posta) nacque dal senso di frustrazione e abbandono che aveva colpito i pionieri spintisi sino all'Oceano Pacifico con il miraggio dell'oro.

Già nel 1860 circa mezzo milione di persone viveva oltre le Rocky Mountains, la maggior parte nell'Oregon e in California.

L'esaltazione per l'oro trovato e per le magnifiche e ricche scoperte non avevano sopito quell'ideale cordone ombelicale che legava queste genti alle loro terre e agli affetti lasciati.

C'era il desiderio di avere notizie da casa, dei propri cari, di sapere cosa stava succedendo nel loro paese lontano là, a est del fiume Missouri.

1980 miglia, cioè 3168 chilometri, ottanta cavalieri, 429 cavalli: questo, in cifre, il “Pony Express”, il cui primo cavaliere prese il via da St. Joseph il 3 aprile 1860 con la sacca della posta.

Nei punti più difficili uomini e cavalli venivano sostituiti anche ogni dieci miglia; ma tutto restava estremamente arduo e infido.

Tra l'altro, prima che il “Pony Express” compisse due mesi di vita, una guerra indiana esplose lungo centinaia di miglia di percorso nello Utah: vennero distrutti i depositi e le stazioni di riposo e diciassette dipendenti della “Pony Express Company” vennero uccisi.

Il più giovane non aveva ancora compiuto quattordici anni. Si può ben capire come questi giovani cavalieri fossero personaggi di tempra formidabile.

Tra gli altri c'era anche un certo William F. Cody, di quindici anni, che proprio con il “Pony Express” firmò il primo capitolo delle sue imprese leggendarie, quelle di “Buffalo Bill”.

Un altro postino, James Butler, si guadagnò il soprannome di “Wild Bill” (Selvaggio Bill) in occasione di un violento scontro con gli indiani.

 

Eccolo, sta arrivando. Vola al limite della prateria, un punto nero che si staglia contro il cielo, come un piccolo uccello che abbia perso il suo stormo.”

Sono parole di Mark Twain che mitizzano la figura di questi uomini e del loro servizio postale.

Ma questa favolosa pagina del vecchio West durò soltanto diciannove mesi.

Il cuore di un cavallo e il coraggio di un uomo nulla poterono contro l'avanzare della tecnica. Lungo la stessa strada percorsa dai cavalieri del “Pony Express” fu installato il primo servizio telegrafico intercontinentale.

Fu una gara allo spasimo tra due squadre di tecnici: l'una partì dal Pacifico e puntò verso est, l'altra partì dal Missouri e puntò verso ovest.

L'obbiettivo era quello di arrivare per primi a Salt Lake City, punto d'incontro a metà strada. Vinse la squadra che proveniva dal Missouri, che vi giunse il 18 ottobre 1861; quella proveniente dalla California arrivò sei giorni dopo.

L'avvenuto collegamento fu festeggiato con l'invio di un messaggio al Presidente Abramo Lincoln.

In pochi minuti un breve testo, contenente una professione di fede all'annessione della California agli Stati dell'Unione, attraversò quelle regioni che i cavalieri del “Pony Express” percorrevano in giorni e settimane.

Il “Pony Express” era finito.

Non gli restava che entrare nella storia, con i suoi William F. Cody, i suoi “Wild Bill”, i suoi Nick Wilson, non prima però di aver dato ai suoi ideatori fama e povertà: in diciotto mesi e mezzo essi chiusero il bilancio con 200.000 dollari di passivo.

 

Centoventi anni dopo, nel mese di giugno del 1980, “pionieri” italiani non più giovani, certamente non magri, forse robusti, sicuramente tenaci, hanno voluto ripercorrere questo magnifico sogno di congiungere la strada, scegliendo la stagione più pericolosa per il caldo mortale delle regioni da attraversare e utilizzando due automobili che sul piano europeo rappresentano il meglio in fatto di stile e di tecnica, tanto da essersi aggiudicate il titolo di “vettura dell'anno” per il 1980.

I non più giovani erano il sottoscritto e i componenti della solita collaudata équipe; le automobili: le Lancia Delta, che ancora non avevamo avuto occasione di provare su lunghe distanze, in condizioni ambientali particolari e sotto sforzo prolungato, condotte sempre al limite delle loro e delle nostre possibilità.

E' nata così l'idea del “Pony Express Raid”; una denominazione piena di fascino, già in partenza avventurosa, eccitante proprio per la storia di cui vi ho raccontato una sintesi all'inizio.

 

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In redazione abbiamo scelto un tracciato che avrebbe toccato sei Stati americani: la Louisiana, il Texas, il New Mexico, l'Arizona, lo Utah e la California, con partenza da New Orleans e arrivo a San Francisco.

Un totale di 5500 chilometri (il dato esatto risulterà alla fine 5537,400 km) da compiersi in otto giorni.

Sulla carta tutto sembrava sì avventuroso ed eccitante, ma sostanzialmente facile. Avendo percorso l'Amazzonia da Caracas a Manaus con le Fiat Ritmo pensavamo di avere già raggiunto l'apice delle difficoltà ambientali. E gli Stati Uniti non presentavano certo i problemi amazzonici.

 

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Louisiana - Stadio "Superdome"

 

Le avventure di guerra e morte del vero “Pony Express” appartengono alla storia: oggi vi sono autostrade, meravigliose strade statali, velocissime tangenziali per attraversare paesi e città.

L'unico “intralcio” è rappresentato dalla Polizia statunitense, che colpisce severamente, e con ragione, chi supera i limiti di velocità. E noi, che negli Stati Uniti abbiamo viaggiato in auto svariate volte, ne sappiamo qualche cosa.

Pensavamo quindi che sarebbero bastate un po' di resistenza fisica, nelle tappe più lunghe, la scrupolosa osservanza dei limiti e nulla più.

Invece anche in questa occasione le nostre previsioni si sono rivelate troppo ottimistiche; soprattutto una cosa non avevamo ben valutata: il caldo.

Un caldo che nel mese di giugno è divampato su tutto il Sud degli Stati Uniti, causando oltre duecento morti, innescando incendi paurosi (di uno siamo stati anche testimoni a El Paso, al confine con il Messico), uccidendo animali e piante, rendendo incandescenti paesi, cittadine, strade e autostrade.

Già alla partenza da New Orleans avevamo avuto qualche temibile avvisaglia: 35 gradi all'ombra, con una umidità relativa intorno al 40-45 per cento. Una temperatura che è andata aumentando sempre più, fino a toccare, nel deserto dell'Arizona i 47 gradi all'ombra.

Scritta così, sulla carta, questa cifra non può dare l'esatta idea di quel che significhi nella realtà; bisogna essersi trovati in una situazione del genere per poter capire appieno cosa sia il caldo.

Non avevamo aria condizionata a bordo e abbiamo dovuto ricorrere agli espedienti più vari, fino al ghiaccio sistemato in sacchetti intorno al collo.

 

Vanni Belli temeva che quel caldo potesse addirittura “sciogliere” le sue pellicole fotografiche. E poi vi era la fatica di ore e ore di guida: 15 ore e 02' nella terza tappa, da Sonora a Las Cruces; 14 ore e 33' nella quarta tappa, da Las Cruces a Kayenta; 14 ore e 27' da Kayenta a Phoenix, e così via.

Mai un giorno di sosta o un'ora di riposo, sempre chiedendo il massimo alle due nostre meravigliose (oggi lo posso dire) Lancia Delta e a noi stessi, giunti stremati a San Francisco otto giorni dopo.

Oltretutto, il passaggio repentino dalla fredda primavera-estate italiana alla torrida primavera-estate americana aveva ulteriormente ridotto le nostre risorse fisiche.

 

Ma procediamo con ordine.

Cominciamo dal momento della partenza, quando a New Orleans, dal locale concessionario Fiat entriamo in possesso delle due Lancia Delta che avevamo spedito dall'Italia via mare.

Carlo Massagrande si accorge subito che qualche cosa non va. La Delta affidatagli non ha la sospensione posteriore a posto. La guido anch'io per qualche chilometro e mi rendo conto che effettivamente i rumori provenienti dal retrotreno non sono certo forieri di buoni presagi.

Marcia indietro e ritorno dal concessionario. Mettiamo l'auto sul ponte e constatiamo che la vettura, durante il trasporto via mare, è stata evidentemente ancorata in un punto non idoneo a reggere gli sforzi di trazione conseguenti al rollio della nave.

Esaminiamo quindi anche l'altra vettura ma scopriamo che in questa il danno è per fortuna minore. Per poter partire subito, l'unica soluzione è intervenire empiricamente; attendere l'arrivo dei ricambi necessari dall'Italia ci farebbe perdere troppo tempo.

Carlo Massagrande non è d'accordo con questo genere di “far da sé” ma il mio dispotismo di capo prevale. Del resto, quello di arrangiarsi è sempre stato, volenti o nolenti, il nostro destino. E finora ci è sempre andata bene.

Con un robusto bastone cerchiamo di raddrizzare ciò che si è piegato, ben consapevoli che così facendo la geometria delle ruote andrà a farsi benedire. Ma non c'è altro da fare. Lavoriamo qualche ora.

La vettura ridiscende dal ponte e Carlo, sempre poco convinto, accetta di ripartire.

Osservo la Delta da dietro: è leggermente fuori posto come assetto ma non sembra che la cosa sia grave. L'unico problema riguarderà il rilevamento del consumo dei pneumatici, i Pirelli P3 che sulla vettura di Massagrande (quella di color blu) denunceranno inevitabilmente una usura anomala.

Prenderemo quindi per buoni solo i consumi rilevati sull'altra, quella rossa, guidata dal sottoscritto.

 

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New Orleans - Hotel Hyatt Regency

 

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New Orleans - "Piazza d'Italia"

 

(vi chiedo scusa per la qualità delle immagini... ho fatto il possibile ma è un dato di fatto che Gente Motori fosse spesso stampato in maniera mediocre, e che questo rovinasse il bel lavoro realizzato da Vanni Belli)

 

Otto mesi erano passati dalla presentazione della Delta e quindi era importante verificare subito alcuni aspetti di questa nuova Lancia.

Premetto subito che avevamo optato per la versione da “un litro e mezzo”, quella più accessoriata (mancava soltanto l'impianto di condizionamento e quanto lo abbiamo rimpianto!).

Inserita nel traffico americano, dove prevalgono ancora i grossi macchinoni e in cui si fanno sempre più numerose le auto giapponesi, la Lancia Delta spicca per i suoi caratteri somatici ben definiti, propri di una razza purissima.

Giorgetto Giugiaro, un autentico mago dello stile, ha ancora una volta centrato l'obbiettivo. Quando vidi la Delta tanti mesi prima della sua nascita ufficiale, in verità mi lasciò perplesso. Era senza finizioni, senza modanature, quasi un manichino.

Avevo avuto l'impressione di un qualche cosa di già visto, di già noto. Era una “Giugiaro” che mi ricordava altre realizzazioni dello stesso stilista.

Poi è venuta la sua presentazione. La vettura mi è apparsa in una luce completamente diversa, l'ho vista dotata di personalità come ben poche altre. Quella prima volta mi ero evidentemente sbagliato.

L'ho vista poi sulle strade europee, emergere nel traffico per eleganza e snellezza. La Delta è un prodotto indovinato a cui il mercato ha risposto adeguatamente.

Ed eccola ora nel traffico americano, a confronto con i grossi “barconi USA”, che chiudono un'epoca e ne aprono un'altra.

Grandi, ingombranti, arzigogolati, con tanti fregi, modanature, cofani imponenti; poi, quando ci sali sopra, con valigie da sistemare, ti accorgi come tutta quella esteriore ostentazione di spazio sia soltanto apparenza.

Nella Delta non c'è nulla di apparente, c'è solo sostanza.

 

Due taxi americani, dall'albergo all'aeroporto di New Orleans, per portare i cinque partecipanti al “Raid del Pony Express”; due Delta per attraversare con gli stessi uomini e le stesse valigie gli Stati Uniti: ma quanto più comfort, quanto più spazio a disposizione sulle vetture italiane.

Allo svantaggio di un bagagliaio non eccezionale si può sempre sopperire con l'abbattimento di uno dei due schienali, (o magari di tutti e due) dei sedili posteriori. E allora sulla Delta si può trasportare di tutto, anche le ingombrantissime sacche da golf che avevamo portato da casa nella vana illusione di concederci qualche attimo di svago.

Le finizioni interne non fanno una grinza e così pure quelle esterne. L'unico appunto che ci sentiamo di muovere riguarda la qualità dei tessuti: in condizioni climatiche come quelle da noi incontrate il panno dei sedili accentua la sensazione di caldo causando una maggiore sudorazione.

Abbiamo dovuto ricorrere all'interposizione di asciugamani per dare un po' di sollievo alle parti a contatto con il sedile.

Per il resto non vi è nulla da obbiettare. La plancia semplice e completa, con tutti gli strumenti a diretta portata di sguardo, i cassetti capaci, i boccagli per l'aerazione idonei ed efficienti in qualsiasi condizione ambientale (insufficienti solo nelle condizioni infernali in cui ci siamo trovati a vivere e a guidare).

 

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Ci inoltriamo in New Orleans, in quella che da sempre viene considerata la capitale del jazz. Ancora oggi il festival del jazz che vi si svolge ogni anno in aprile è un grande appuntamento musicale, oltre a essere una vera e propria sagra popolare in cui tutti, per nove giorni, vivono da protagonisti.

Si tiene nel Fair Grounds Race Track, un vasto spazio erboso che sorge alle porte della città e che ospita abitualmente l'ippodromo, tra vecchie querce e laghetti costruiti dai francesi durante il periodo coloniale.

Il ritmo crescente delle decine e decine di bande jazzistiche si fonde con il profumo delle magnolie (simbolo di questa città) e dei gamberi fritti.

La città si scatena. Giungono al Fair Grounds Race Track i poveri che abitano nel quartiere di Algiers insieme ai ricchi che abitano la Bourbon Street, una strada famosa per i suoi locali notturni e per i bar dove ancora si può ascoltare dell'ottimo jazz.

Vengono dimenticati i vecchi rancori razziali, quelli che vedono a tutt'oggi i n...i (ndGTC: ometto la n-word con la “g” che ai tempi veniva usata anche senza cattive intenzioni – compariva anche nelle vignette di Topolino - ma che oggi è giustamente vista in altro modo) banditi da certi luoghi e impiegati soltanto in lavori umili e pesanti.

Meravigliosi pezzi di “ragtime” si fondono con il “boogie-woogie”, i “blues” con i “gospel”, con i “rhytm and blues” e con tutta quella jazzistica che proprio qui, nel distretto di Storyville a New Orleans, nacque agli inizi del Novecento.

Con le due Lancia Delta anche noi ci avventuriamo in Bourbon Street, dalle case basse, con i balconi in ferro battuto e colonne all'ingresso: antiquari, negozi per turisti, tanti bar, cabaret e locali di strip-tease.

Mi guardo attorno ed ecco spuntare un personaggio fantastico, che sembra uscire dalla storia del vecchio e originario dixieland, ai tempi in cui il jazz, una musica afroamericana, frutto dell'humus di una razza trapiantata a viva forza da un continente all'altro, rappresentava quasi una preghiera e un atto di rivoluzione assieme.

 

Vecchio, nero, ballerino: aveva dato la vita per il jazz e la vita ora lo ripagava con povertà e privazioni. Al suono di un'orchestrina, Don Ellis, questo il suo nome, ci improvvisa un ballo.

L'accompagnamento è perfetto; il violinista non è certamente Gatemounth Brown e il pianista non è Dave Brubeck; non c'è un chitarrista come B.B. King, o un vibrafonista come Lionel Hampton.

Ma è come se ci fossero e Don Ellis balla, con il sigaro in bocca e un vecchio ombrello in mano, motivi che ricordano la sua giovinezza, quando lavorava per la grandissima Dixies Davis (tuttora sulla breccia a onta dei suoi ottantaquattro anni) o per l'ineguagliabile B.B. King.

È l'occasione per Vanni Belli di scattare le sue fotografie, forse le più belle, le più umane.

 

(fotografie che purtroppo non possiamo ammirare, perchè per chissà quale motivo al momento della "confezione" dell'articolo rimasero fuori dal corredo fotografico... tranne una che però fu pubblicata su due pagine, con Don Ellis piazzato proprio nel mezzo, quasi invisibile)

 

Ma il tempo incalza. Dobbiamo completare la documentazione fotografica della “stazione di partenza”, da cui daremo inizio all'avventura che ci porterà nel giro di otto giorni da New Orleans a San Francisco, via Houston, El Paso, Albuquerque, la Monument Valley, il Grand Canyon, Phoenix, Los Angeles e la splendida, indimenticabile penisola di Monterey.

Partiamo, lasciando alle nostre spalle New Orleans e puntando su Houston, dove abbiamo fissato la sede della nostra prima tappa.

Fa caldo ma in modo ancora sopportabile. Lasciamo dietro di noi anche il Mississippi, il grande fiume che avevamo risalito in occasione di un nostro precedente raid.

Complessivamente percorriamo 586,7 chilometri, impiegando dalla partenza all'arrivo 10 ore e 04', di cui 6 ore e 33' di guida effettiva.

Per le soste (rifornimenti, fotografie, colazione) abbiamo perso 3 ore e 31 minuti.

Carlo Massagrande, con la precisione che lo contraddistingue, mi comunica la media: 90,946 chilometri all'ora. Rapidamente calcola anche i consumi: la mia Delta, quella di color rosso, ha bruciato 51,40 litri di carburante; la sua, di colore blu, 48,60 litri.

Veloce lavoro con la calcolatrice e stabiliamo che la Delta rossa ha percorso 11,589 chilometri con un litro; quella blu 12,257 chilometri.

Il piede del “regolarista” Massagrande si è fatto sentire ancora una volta.

 

Girare per Houston non un'impresa facile. La circolazione è caotica e, per la prima volta negli Stati Uniti, troviamo che le indicazioni stradali sono scarse, poco chiare.

Fatichiamo un po' prima di trovare la strada che ci condurrà a Pasadena, al “Johnson Space Center”, dove la NASA ha fissato il suo quartier generale e dove Vanni Belli vuoi ripetersi in fotografie sensazionali, come quelle già scattate a Cape Kennedy nel nostro raid di un paio d'anni fa, quando da Montreal (in pieno inverno) siamo andati con due Ritmo a Miami.

 

Il “Johnson Space Center” ci accoglie all'imbrunire, dopo che avevamo costeggiato la Galveston Bay, con i suoi pozzi petroliferi oceanici, visibili sullo sfondo ma troppo distanti per essere fotografati.

Le ombre della notte sono già scese e quindi decidiamo di rimandare all'indomani ogni cosa. Andiamo a dormire; “mettiamo a letto” anche le due Lancia Delta che non hanno mai perso un colpo, che hanno assecondato benevolmente anche le repentine (e non sempre azzeccate) decisioni di un “capo” come il sottoscritto, soggetto a mutare opinione a ogni momento.

Ma fra i due equipaggi regna l'affiatamento e finora tutto è andato sempre per il meglio.

 

Fine prima parte

 

Modificato da PaoloGTC
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"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

Inviato

Seconda parte

 

A Pasadena, dove l'équipe di Gente Motori si trova per il “Pony Express Raid”, il sole sorge presto.

Le nostre camere, che guardano proprio il centro spaziale “Johnson Space Center”, non hanno le imposte: è giocoforza prepararci per la seconda tappa dell'avventura americana.

Siamo nel Texas ma è difficile riconoscere nell'ambiente che ci circonda l'antico mondo dei pionieri, quel mitico Far West che è una parte fondamentale della storia di questo Paese.

Eppure il Far West è oggi di gran moda negli Stati Uniti. Non c'è rete tv che non proietti storie ambientate “là dove gli uomini sono uomini”, con la sua brava coreografia di sparatorie, di boccali di birra che corrono lungo i banchi del saloon, di sceriffi coraggiosi e onesti.

Ero a New Orleans nei giorni della campagna elettorale americana per la presidenza. Una delle televisioni locali, evidentemente favorevole a Ronald Reagan, dava al candidato il suo contributo; non lo faceva però ospitando il personaggio o concedendo spazio al suo programma politico, bensì proiettando film dei quali l'ex-attore era stato protagonista.

Ho rivisto così “The Cattle Queen of Montana” ribattezzato in Italia “La regina del Far West”, con Barbara Stanwyck, e “Tennesse's Parner” (anche questo giunto in Italia con il titolo cambiato, “La giungla dei temerari”) che aveva nel cast anche Rhonda Fleming.

 

A riprova di questo grande revival del Far West, milioni di ragazzi hanno riscoperto le “steelguitars”, le chitarre metalliche, i “fiddles”, i violini di campagna, i “banjos” e così via.

Altri milioni di giovani portano il grande cappello, gli stivaletti dal tacco alto, la lunga stringa fermata al collo da un bucranio di metallo e tutto ciò che serve a farli sentire in divisa da cowboy.

Anche qui a Pasadena, dove tutto parla di futuro, di avventure spaziali, di guerre stellari, alla fine chi si reca al lavoro al “Johnson Space Center” ha più l'aria di un uomo da rodeo che di un tecnico spaziale.

I poliziotti che ci fermano (per esempio quando, con un colpo di mano inaspettato, Vanni Belli riesce a infilare le nostre Lancia Delta tra un missile e l'altro per scattare le foto spettacolari che potete ammirare) si avvicinano con il passo alla cowboy, con le gambe leggermente arcuate, a passo lungo, dimenticando che le gambe storte non caratterizzano certo chi guida una Pontiac Catalina con i simboli dello sceriffo sulle fiancate, ma chi affronta estenuanti cavalcate a staffa lunga.

Tutto questo però è un po' poco per quello che deve essere stato l'autentico Far West. Qui domina il razzo Mercury, quello che venne usato per lanciare nel maggio e nel luglio del 1961 i primi astronauti americani nello spazio: Shepard e Grissom.

 

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Johnson Space Center - Il Mercury e il Little Joe II

 

Alan Shepard con il primo veicolo di questa serie, l'”MR-7”, raggiunse l'altezza di 101 miglia nautiche; il volo durò quindici minuti e mezzo e in questo periodo di tempo Shepard rimase per cinque minuti in assenza di peso.

Ed ecco il “Little Joe 2°” e il “BP 22”. Il “piccolo Joe” ha rappresentato una tappa importante nel successivo programma Apollo, dato che fu proprio con questo vettore che venne collaudato il sistema di salvataggio degli astronauti. E infine ecco il grande “Saturno V”, che portò in orbita attorno alla Luna la navicella Apollo; un prodigio della tecnica, con tre milioni di componenti.

 

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Johnson Space Center - Il Saturno V

 

Ma è il momento di riprendere il nostro viaggio e affrontare la seconda tappa, che nell'arco di 683,700 chilometri dovrebbe portarci da Houston a Sonora. Le nostre due Lancia Delta hanno riposato bene, come noi.

Fa caldo, un caldo umido, appiccicaticcio, che aumenterà man mano che il sole si alzerà alto sull'orizzonte. Carlo Massagrande, con la sua solita puntigliosa precisione, controlla i livelli e mi fa notare che sul bordo del cofano mancano le guarnizioni, e ciò consente, mi dice, una più efficiente circolazione dell'aria all'interno del vano motore.

Sono ricoperti di guarnizioni solo i bordi della vasca servizi e della bocca di immissione del riscaldatore, allo scopo di non contaminare con odori sgradevoli l'aria di climatizzazione.

Il quattro cilindri è disposto trasversalmente al vano motore, che non risulta molto ampio, almeno in rapporto alle pur ridotte dimensioni del propulsore; malgrado l'evidente sensibilità dei tecnici ai problemi della manutenzione, non si è potuto fare a meno di imporre qualche sacrificio.

Massagrande mi fa anche notare quanto siano agevoli i rabbocchi, ma come non si possa dire lo stesso per le verifiche all'alternatore o per i piccoli interventi su candele e filtro dell'olio.

Sono, a nostro avviso, gli unici difetti di questo motore che in tutto l'arco della nostra durissima prova non ha mai perso un colpo.

Derivato da quello della Ritmo, il motore della Delta ha la potenza massima aumentata da 75 a 85 cavalli. L'architettura della distribuzione, con un solo albero a camme in testa e valvole in linea inclinate di diciotto gradi, è rimasta invariata. Diverso è invece il profilo delle camme, che i tecnici della Lancia hanno adattato alla diversa alimentazione (un carburatore doppio corpo) e ai nuovi collettori di aspirazione e scarico.

Qualcuno si chiederà perché la Delta abbia richiesto maggior potenza rispetto alla Ritmo. Il nostro raid ci ha consentito di trovare una risposta: per migliorare la brillantezza e l'elasticità di marcia, e per far fronte al maggior peso e al lieve peggioramento aerodinamico che la Delta segna nei confronti della “cugina”.

Ma i miglioramenti, o meglio, le raffinatezze, di questo propulsore non si fermano qui.

Per esempio, grazie all'accensione elettronica, l'avviamento è immediato; la rumorosità di marcia è appena avvertibile e non raggiunge mai toni aspri o rombosità fastidiose.

Con Carlo Massagrande mi sono esibito anche in diversi fuorigiri, sfruttando il motore con spregiudicatezza e senza particolari precauzioni. Ebbene non ha mai dato segni di “ribellione” e ci ha portato a San Francisco con sicurezza e nel fulgore della sua... giovane età.

 

Ci lasciamo alle spalle Pasadena, quindi Houston e puntiamo verso Sonora. Dobbiamo attraversare tutto il Texas, il secondo Stato americano per estensione. Nella metà del diciannovesimo secolo era un territorio molto aspro e selvaggio, tanto che il generale Sheridan di ritorno da un viaggio in questo Stato nel 1866 disse ai suoi collaboratori: “Se possedessi il Texas e l'inferno, venderei il Texas e mi stabilirei all'inferno.”

Evidentemente il generale Sheridan aveva visitato questa regione nei mesi più caldi, proprio come è capitato all'équipe del “Pony Express Raid”. Oggi però, a parte la temperatura, il Texas è cambiato di molto. Un secolo di progresso lo ha popolato con oltre tredici milioni di abitanti: in tal modo è diventato il terzo Stato (come numero di abitanti) dell'Unione.

Sono bastate due generazioni per trasformare la vita stessa di questa zona; l'80 per cento prima era rurale, oggi l'80 per cento della popolazione vive in centri urbani.

È stato detto ed è stato scritto che gli Stati Uniti non hanno una storia e che i loro sono piccolo avvenimenti senza seguito. Ma non è così. Le regioni attraversate dal nostro raid hanno vissuto pagine memorabili di storia, pari a quelle dei più antichi Paesi europei.

Una città vale per tutte: San Antonio, con il suo piccolo quartiere chiamato la Vallita e che conserva ancora intatto il fascino del Messico.

I turisti vi si recano per ascoltare i Mariachi, autentici funamboli della chitarra, con il loro amplissimo sombrero e il loro costume spagnolo. Gli stessi turisti scendono con le barche lungo il “Paseo del Rio”, una passeggiata sul fiume. Ma tanti anni fa a San Antonio c'era soltanto un villaggio indiano; è stato nel 1691 che il padre Damien Massanet battezzò quelle poche case con il nome del Santo di Padova. Ma perché diventasse un “pueblo”, si è dovuto attendere fino al 1718, quando venne fondata una delle più importanti missioni della zona: quella di San Antonio de Valero.

Oggi questa cittadina racchiude in sé forse il più antico monumento che sia dato trovare in tutti gli Stati Uniti: Alamo.

 

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Alamo - Village Brackettville

 

Il caldo è insopportabile. Vanni Belli ha il suo bel daffare a tenere lontani i curiosi sempre più attratti dalle nostre due Lancia Delta. Mentre sistema le due auto per le foto, approfitto per entrare in quello che resta di Alamo.

Mi viene incontro un vecchio, mi guarda negli occhi e mi identifica subito: “Italiano!”. “Sì”. “Sono Pedro Gomez”, mi dice, “e faccio il sagrestano”. Parla uno spagnolo strascicato, americaneggiante.

Vuole conoscere la storia di Alamo?” Faccio cenno di sì con il capo.

Il vecchio si siede a terra.

Vada alla cattedrale di San Patrizio, ascolti la messa, sentirà cantare e suonare alla messicana, come se ascoltasse dei Mariachi. A San Antonio la musica è a ogni angolo, ma l'unico luogo dove è assente è proprio qui, alla missione di Alamo.

Se lei vuol capire Alamo deve comprendere la storia stessa del Texas. Dopo cinque anni di controllo francese la zona passò sotto il dominio degli spagnoli dal 1519 al 1821. Ma con l'indipendenza messicana il Texas divenne parte integrante di questa nazione, sconvolta periodicamente da rivoluzioni, colpi di stato, guerre.

Nei confronti del Texas i messicani si comportarono da colonizzatori. Ogni famiglia ricevette 4428 acri di terreno, ma ciò attirò anche molti americani. Già nel 1835 questi ultimi raggiunsero quota 30.000, superando i nativi in un rapporto di 10 a 1.

Era logico che nascessero contrasti, e i “texani”, come amavano chiamarsi i “gringos” (gli americani) scacciarono i messicani a sud del Rio Grande.

Il resto dell'America, affascinata dalle leggende che giungevano da queste zone, inviò nel Texas i suoi uomini più avventurosi. Vi giunsero personaggi che sono autentiche leggende viventi, gente famosa come Davy Crockett.

 

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Alamo - Village Brackettville

 

La situazione era insostenibile e i messicani mandarono un esercito di quattromila uomini agli ordini di Antonio Lopez de Santa Anna Y Perez de Lebron con l'ordine di sconfiggere i “gringos” capeggiati da Sam Houston.

La storia non avrebbe potuto contrapporre due personaggi così diversi: de Lebron, tre volte sconfitto alle elezioni presidenziali messicane pasteggiava a champagne ed era dedito all'oppio; Houston all'età di diciassette anni aveva accettato di diventare un indiano, un Cherokee, vivendo per tre anni con gli indiani, da indiano. E più tardi, fu proprio difendendo le giuste richieste indiane che Houston venne eletto al Congresso.

L'arrivo del generale Antonio Lopez colse di sorpresa centottanta uomini che non riuscirono più ad agganciarsi alle truppe del generale Houston. Non rimase loro che asserragliarsi nella missione di Alamo, un edificio costruito un secolo prima e che i messicani avevano trasformato in una fortezza.

Ma era una fortezza “sui generis” e il ventisettenne tenente colonnello William Travis, che comandava questi 180 uomini, aveva ben poche possibilità di farcela.

La battaglia segnò anche la sconfitta di Antonio Lopez che, attaccando Alamo, permise a Houston di riorganizzare le file delle sue truppe.

Ad Alamo la lotta ebbe inizio il 23 febbraio 1836 e la resistenza durò tredici giorni.

La tradizione dice che tutti i difensori di Alamo vennero uccisi; la realtà è leggermente diversa: quando i messicani irruppero all'interno di Fort Alamo sette assediati erano ancora vivi e fra questi Davy Crockett.

Ma Antonio Lopez de Santa Anna non ebbe per essi pietà: vennero torturati e uccisi.

Non soddisfatto della carneficina il generale messicano si decise ad attaccare l'esercito di Houston ma commise un altro errore: rinviò l'attacco al giorno dopo.

 

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Alamo - Village Brackettville

 

Il 21 aprile, approfittando del momento della siesta tanto cara agli spagnoli e ai messicani, Houston attaccò il loro accampamento. I texani li colsero di sorpresa, li sconfissero e al tramonto si poté tracciare il bilancio; tra i messicani 630 morti, 208 feriti, 730 prigionieri.

Tra i texani 2 morti e 23 feriti.

Tra i prigionieri Antonio Lopes de Santa Anna che, in cambio della propria libertà, concesse al Texas l'indipendenza.

Dieci anni dopo il Texas entrava nell'Unione.”

 

Questa è la storia raccontatami da Pedro Gomez. Gli allungo qualche dollaro e guardo con profonda emozione Alamo e quello che resta di quella che fu una fortezza.

Le Termopili ebbero il loro nunzio di sventura, Alamo no!”, disse il generale Thomas Jefferson Green.

Ecco il cortile principale, la “plaza”; a destra quello che rimane dei vecchi bastioni dove aveva sede il quartier generale; a sinistra gli alloggiamenti degli artiglieri, dei fanti, l'ospedale, il magazzino degli esplosivi.

Quasi intatta la chiesa, con il portale ornato da quattro colonne che si elevano su alti piedistalli. All'interno Pedro Gomez che mi ha raggiunto trascinando la sua vecchia gamba malata, mi mostra le grandi lapidi con i nomi dei centottanta caduti.

Lasciamo alle spalle San Antonio e ciò che resta di Fort Alamo per puntare su Sonora.

 

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Siamo sempre sulla strada numero dieci che conduce sino a El Paso ai confini con il Messico. Giungiamo a Sonora dopo tredici ore e cinque minuti. I chilometri percorsi sono stati 683,700 e le ore effettive di guida 6 e 57'.

Abbiamo quindi “perso” sei ore e otto minuti per la parte fotografica. La media è di tutto rispetto: 98,374 chilometri all'ora. La Lancia Delta di colore rosso pilotata dal sottoscritto ha bruciato 56,89 litri di carburante pari a 12,017 chilometri con un litro (oppure 8,320 litri per cento chilometri); la vettura blu pilotata da Carlo Massagrande ne ha bruciati 57,46 con una percorrenza di 11,898 chilometri/litro (litri 8,404 ogni cento chilometri).

Parlare di temperatura esterna forse è inutile. Man mano che procediamo il termometro sale. Nel deserto, all'ombra, sfiora i 47 gradi. C'è veramente da impazzire e questo non per qualche decina di chilometri, ma continuamente, per centinaia, migliaia di chilometri sino alla costa dell'Oceano Pacifico.

Infatti soltanto dopo Los Angeles finirà, o almeno si attenuerà, il nostro progressivo abbruttimento dovuto al caldo, alla sete, alla stanchezza.

 

È l'alba e ci avviamo per la terza tappa: da Sonora a Las Cruces via El Paso. Si prospettano circa novecento chilometri (saranno nella realtà pochi di meno: 892,500) in condizioni d'ambiente infernali.

Approfittiamo della temperatura ancora sopportabile, della mancanza di traffico e speriamo anche di evitare le pattuglie della polizia stradale per esibirci in qualche rilevazione della velocità sul chilometro. Carlo misura le distanze e poi parte alla ricerca della velocità massima.

Tra le due auto ne scaturisce una media di 159,200 chilometri all'ora. Ottime le capacità di accelerazione. Equilibrate, senza fischi, stridii e sgommate varie, le nostre due Delta percorrono mediamente (abbiamo fatto la media fra i due valori) il chilometro con partenza da fermo in 34”8/10, un tempo ottenuto posizionando i cambi fra i 6000 e i 6500 giri al minuto.

Ottima la ripresa, anche al di là dei puri valori numerici, che, nel caso di una vettura dotata di un cambio a cinque marce, sono sempre penalizzati e non confrontabili con le situazioni reali.

Accelerando progressivamente da 40 chilometri all'ora in quinta marcia abbiamo percorso il chilometro in 38”3/10; ma già usando il più corto quarto rapporto il tempo si è ridotto a un ottimo 35”2/10 che rende meglio l'idea delle capacità di questa vettura.

Affrontiamo la terza tappa.

Appena fuori città incontriamo i primi cowboy. Tutta una letteratura è nata alle loro spalle.

Cowboy si nasce, non si diventa” mi diceva con orgoglio uno di loro. “Fare il cowboy non è una professione” mi ha detto un altro, “ma un modo di vita”.

Rappresentano una casta che ha rispetto soltanto per coloro che sono nati in sella. I tempi sono cambiati, ma la figura del cowboy resta avventurosa, forse perché la loro vita è solitaria. Sono in molti, l'ho già ricordato all'inizio, a imitarli.

C'è chi a Los Angeles si atteggia a Buffalo Bill, chi al Greenwich Village di New York intona vecchie canzoni della prateria, c'è chi come Paul Newman ambienta tutto un suo film sulle Montagne Rocciose o chi come John Travolta dà vita al cowboy da città: “Urban Cowboy”.

 

Ma il re dei cowboys rimane sempre Pecos Bill, una specie di semidio del West. La leggenda narra che Pecos Bill si affilasse i denti sulla lama del suo coltello e che i suoi primi compagni di giochi furono gli orsi e altri animali selvaggi del West.

Di lui si raccontano strabilianti avventure come il corpo a corpo con due colossali orsi che egli strinse fra le braccia sino a soffocarli. Oppure la lotta con un serpente a sonagli della cui pelle si servì poi come di una corda per prendere al laccio certe gigantesche lucertole.

Oppure l'incontro con un puma il quale, riconosciutolo, gli chiese subito la grazia, lasciando che egli gli salisse in groppa e lo cavalcasse.

 

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Una cartolina... Saluti da Gianni, Carlo, Bruna e Vanni!

 

Il “Pony Express Raid” di Gente Motori continua la sua avventura attraversando queste assolate terre del Texas e del Nuovo Messico che videro le avventure dei “trappers” e dei “bull trains”, affrontando l'”arid land”, il gran deserto della prateria.

Le nostre Lancia Delta ci consentono una sufficiente protezione (rimpiangiamo il condizionatore quando vediamo sfrecciare le mastodontiche auto americane che viaggiano a finestrini chiusi), ma cosa deve essere stato l'avanzare dei pionieri sui “bull trains” (letteralmente “bove-convoglio”), quei carri coperti chiamati così perché i “covered wagons” erano trainati per la maggior parte da buoi, lenti nell'incedere, ma resistenti alla sfibrante fatica imposta dal deserto.

E sempre avanti verso il West sfidando le condizioni ambientali difficili e soprattutto i pericolosissimi indiani.

Le immagini di tanti film di successo in cui i pionieri marciavano verso l'ignoto, gli indiani attaccavano da tutte le parti, la cavalleria americana arrivava con i suoi “soldati blu” a salvare il salvabile, mi ritornano alla mente.

Una per tutte: quella di “Ombre rosse” realizzato nel 1939 da John Ford. Il film western, nato nel 1903 con l'”Assalto al treno” del regista americano Edwin S. Porter aveva subìto poi un lento declino.

 

Fu Ford appunto con il suo “Ombre rosse” a ridare al film western nuova gloria. La storia emozionante di un gruppo di viaggiatori su una diligenza, attraverso il territorio indiano, in un clima d'interesse e di tensione che incollava al grande schermo sin dalle prime sequenze lo spettatore, lo riconquista ancora oggi quanto il piccolo schermo riporta alla ribalta queste immagini, e quello che è stato l'attore principe di questi film western (“Ombre rosse”, “Il massacro di Fort Apache”, “Sentieri selvaggi”): John Wayne.

Oggi sulle autostrade americane viaggiano i camper. Tanti, di tutte le fogge; alcuni hanno la motocicletta appiccicata al muso, l'automobile ancorata nella parte posteriore, la barca sistemata sul tetto. Ma questi camper non sono altro se non la trasposizione in chiave moderna dei carrozzoni.

 

Tocchiamo El Paso, al confine con il Messico: si tratta praticamente di un'unica città, divisa da un fiumiciattolo, che si chiama El Paso nella zona di competenza degli Stati Uniti e Ciudad Juarez in quella di competenza della repubblica messicana. E finalmente raggiungiamo Las Cruces.

Abbiamo percorso 892,500 chilometri in 15 ore 02', di cui 8 ore 51' di guida effettiva. La media è stata come sempre notevole: 100,847 chilometri all'ora. I consumi sempre ottimi.

Litri 79,41 bruciati dalla mia Delta (11,239 km/litro pari a 8,897 litri/100 km), litri 79,4 bruciati dalla Delta condotta da Carlo Massagrande (11,196 km/litro pari a 8,931 litri/100 km).

Andiamo a letto completamente intontiti e di questo non possiamo certamente dare colpa alle nostre due auto che hanno un grosso punto di merito soprattutto nel comfort di marcia e nella silenziosità.

Le Delta si sono rivelate in ogni condizione assolutamente esenti da vibrazioni, insonorizzate anche nei minimi particolari e ottimamente studiate anche dal punto di vista della rumorosità aerodinamica.

 

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"Disegnata da Grande Capo Giorgetto su moto da trial!"

 

Molto buono anche l'assorbimento delle sollecitazioni realizzato dal binomio sospensione-sedile. L'aerazione, date le condizioni ambientali, ha fatto quello che meglio poteva; molto poco soprattutto per chi disgraziatamente si è trovato sui posti posteriori. Ma, lo ripetiamo, le condizioni ambientali erano assolutamente fuori del normale: in quei giorni nel Texas e nel Nuovo Messico duecento persone sono morte per l'eccesso di caldo.

 

Quarta tappa: Las Cruces – Albuquerque – Kayenta, dal Nuovo Messico all'Arizona, dove si preannunciano altri tratti desertici, altri cactus a candelabro, altri paesaggi sconfinati. Kayenta, dove abbiamo deciso di far tappa, è una piccola cittadina, segnata in carattere minuscolo sulle carte geografiche americane, anche quelle a scala ridotta.

 

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Albuquerque - Old Town Plaza

 

Ma la riteniamo importante non solo dal momento che si trova nel cuore delle riserve Navajo, ma anche perché, per raggiungerla, attraversiamo luoghi famosi per le rivolte indiane.

Inoltre rappresenta la porta di quello che è forse il più grande spettacolo del mondo: la Monument Valley.

Così, sotto un sole accecante, i protagonisti del “Pony Express Raid” procedono con le loro Lancia Delta, ripercorrendo itinerari sui quali vennero perpetrati omicidi spaventosi. Uno per tutti quello attribuito alla banda di Geronimo, quando assalì l'Overland Mail, uccise il conduttore e i passeggeri, mentre i due militari di scorta, legati alle ruote posteriori, giunsero alla successiva stazione di posta in un ammasso sanguinolento.

Geronimo fu l'ultimo capo Apache che continuò ad assalire i bianchi anche dopo la fine della guerra indiana, avvenuta con il massacro di Custer. Si arrese soltanto nel 1886 dopo aver imperversato in Arizona e nel Nuovo Messico.

Il suo odio esplose contro i bianchi quando nel 1858 i messicani irruppero nel suo villaggio e uccisero la madre, la moglie e i figli. Da quel momento egli aggredì tutto quanto sapeva di “yankee” o di messicano, senza distinzione.

Soltanto nel 1886, stanco di essere braccato, si consegnò al capitano Gatewood. Morì nell'Oklahoma nel 1909.

 

Andando verso Kayenta ho cercato anch'io gli indiani. Però i pellerossa, così come li ha conosciuti la nostra fanciullezza, non esistono più. Si notano soltanto per i loro caratteri somatici, per certi loro atteggiamenti che non ho capito bene se di timidezza o di diffidenza.

Per il resto vestono come noi, fanno la spesa al supermercato come noi, viaggiano come noi con il fuoristrada. Il “sachem”, il capo indiano, non è più ascoltato come una volta; la “squaw”, la donna, cerca di vestirsi secondo l'ultima moda, il “calumet”, la pipa, ha lasciato il posto alle sigarette... i diademi di penne, il “tomahawk”, cioè la clava da combattimento, come del resto il “totem” sono ormai relegati a manifestazioni turistiche.

Arriviamo a Kayenta dopo 14 ore e 33' di cui nove ore di guida effettiva. I chilometri percorsi sono stati 905,800 alle media di 100,644 chilometri all'ora. La mia Delta ha bruciato 80,81 litri di carburante (11,209 km/litro pari a 8,921 litri/100 km); quella di Massagrande 80,13 litri (11,304 km/litro pari a 8,846 litri/100 km).

Domattina ci aspettano la Monument Valley e il Grand Canyon.

 

Fine seconda parte

 

  • Adoro! 3
  • Grazie! 2

"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

Inviato

Terza ed ultima parte

 

Il guerriero Oglala rimaneva accosciato, immobile, sul carro delle provviste, con l'odore secco della farina nelle narici. Era così irritante quella nuvola tenue, bianca, polverosa, sospesa entro le pareti di tela, da dargli la certezza che avrebbe finito con lo starnutire.

Afferrò il tomahawk a tre lame d'ascia e concentrò i propri pensieri sulla sensazione dell'impugnatura decorata a perline contro il palmo. Oh, padre mio, quest'arma è potere e morte e la fine dell'uomo bianco, disse con ira a se stesso, mentre la polvere gli solleticava il naso come uno spirito maligno. Fa che io pensi soltanto a questo tomahawk.”

 

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Così inizia uno dei più grandi classici del West, “Stagecoach”, portato sullo schermo da John Ford con il titolo di “Ombre rosse”.

Parlare di questo film è facile e difficile nello stesso tempo. Tutti lo hanno visto, chi al cinema e chi (anche recentemente) alla televisione. Come si può dimenticare l'improvvisa e ormai storica carica della cavalleria che interrompe all'ultimo istante il massacro dei passeggeri della diligenza? Chi può dimenticare il tenentino Blanchard (impersonato dall'attore Tim Holt) che all'inizio del film guarda tra l'ammirato e il timoroso la diligenza su cui la moglie del capitano Mallory si avvia verso un destino incerto?

Chi può dimenticare Dallas, la prostituta, espulsa dal villaggio insieme al dottore ubriacone? Chi il bianco cappello del gentiluomo del Sud, il giocatore Hatfeld, che confesserà in punto di morte di essere il figlio del giudice Ashburn? Chi Ringo Kid, il personaggio di questo film che lancerà il giovanissimo John Wayne verso una trionfale carriera?

 

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E' proprio qui, da Kayenta, alle soglie della Monument Valley, che hanno preso le mosse i protagonisti del romanzo di Robert W. Krepps e del film di John Ford, che per anni e decenni hanno fatto la fortuna dei cosiddetti “pulp magazine”, riviste da pochi soldi e di altissima tiratura, dalle copertine di dubbio gusto, ma ricchi di storie drammatiche e d'azione in cui il grande protagonista era il West.

 

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Con le nostre due Lancia Delta impegnate nel “Pony Express Raid”, stiamo per affrontare la parte più affascinante del viaggio. Praticamente tutto ha inizio da Window Rock, la capitale della nazione Navajo, che deve il suo nome all'alta roccia forata che le sta alle spalle, quella che qui chiamano la “roccia con la finestra”.

Visto da lontano sembra un occhio mostruoso: non è altro se non il frutto di una millenaria erosione.

 

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Su una montagnola di terra rossa sta il palazzo del Consiglio, in pietra e legno; infatti la nazione Navajo ha un suo governo e un suo presidente, il cui mandato è di quattro anni.

La sala ottagonale del Consiglio è bella, affascinante. È stata dipinta da Gerard Nailor, un noto pittore navajo, e racconta la storia della tribù. Tutto intorno vi sono i banchi dei delegati. Fuori, davanti all'ingresso, una vecchia campana, regalata dal presidente della “Santa Fe Railroad” alla comunità navajo quale omaggio alla devozione dimostrata da questa tribù ai tempi della costruzione della ferrovia.

Attualmente la campana viene usata soltanto per annunciare l'inizio delle sessioni del Consiglio. Il Navajo Tribal Council stabilisce la linea politica generale della tribù ed è riconosciuto strumento di governo.

Ha giurisdizione su tutta Navajoland, una zona grande come gli Stati del Massachussets, del Connecticut e del Rhode Island messi insieme. All'epoca della creazione della riserva i navajos erano circa ventimila; ora sono circa centocinquantamila.

Il territorio è ricco di carbone, uranio, petrolio. Hanno il loro giornale, il “Navajos Times”, che ha cadenza settimanale e porta come sottotitolo la frase “The Official Newspaper of the Navajo Tribe”.

Window Rock, la “roccia con la finestra”, rappresenta l'ingresso alla Monument Valley, che affrontiamo al mattino presto.

E' uno dei più grandi spettacoli che la natura possa offrire. Si estende a nord-est della riserva dei Navajo, al confine fra lo Utah e l'Arizona. Occupa la parte centrale dell'altopiano del Colorado e ha un'altitudine variabile dai 1600 ai 2300 metri.

Si tratta di una regione desertica, caratterizzata da “mesas” isolate o riunite in brevi catene, da rocce scoscese plasmate nell'arenaria rossa, che si innalzano fino a 600 metri sopra le dune di sabbia.

I geologi dicono che la Monument Valley è nata circa settanta milioni di anni fa da un braccio di mare del Golfo del Messico, che si estendeva allora su tutta la zona. I monoliti di arenaria assumono forme diverse: di guglia, come il “Totem Pole”; di dente, come il “Three Sisters”; di fortezza, come l' “Elephant Butte”; di tavola come il “Mitchell Mesa”, quest'ultimo uno dei più alti.

 

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Queste forme, il loro colore che muta con il variare dell'incidenza del sole secondo l'ora del giorno (al tramonto le rocce si tingono di un rosso fiammeggiante), creano un paesaggio unico al mondo, che ha fatto da sfondo a moltissimi film western.

 

Mentre Vanni Belli si dedica alla parte fotografica, con Carlo decido di saggiare su questo terreno particolarmente infido, ricoperto di una sabbia finissima che riduce a zero l'aderenza, la tenuta di strada delle due Lancia Delta. Trazione anteriore, sospensioni a ruote indipendenti a elevata flessibilità: sono queste le caratteristiche salienti dell'impostazione della vettura.

Dandoci sotto e facendo i soliti “numeri” (che poi ci costeranno severe e giustissime rampogne da parte dei tutori di questo parco nazionale) notiamo subito che la Delta, in situazioni normali di marcia, è perfettamente neutra ed esegue docilmente gli ordini che il guidatore le trasmette con sterzo e acceleratore.

La sua esemplare correttezza si manifesta anche a velocità elevata, finché i raggi di traiettoria si mantengono ampi. Sui sentieri tormentati di questa Monument Valley le Delta hanno invece mostrato una lieve tendenza sottosterzante, che si è accentuata con l'aumentare delle velocità di percorrenza.

In questi casi, tuttavia, una maggiore angolazione dello sterzo o un alleggerimento della pressione al pedale dell'acceleratore sono sufficienti a togliere chiunque da ogni impaccio. Malgrado l'elevata flessibilità delle sospensioni, il cui ondeggiamento agisce da freno psicologico, le Delta hanno risposto bene alle manovre di emergenza e hanno dimostrato di sopportare qualsiasi eccesso di confidenza, grazie anche alle doti di spunto del motore e all'innegabile precisione dello sterzo.

Dopo le rampogne di un sorvegliante, ci fermiamo brevemente nella casupola posta all'ingresso della Monument Valley.

 

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Un luogo per turisti con la solita boutique che vende cose locali. Il West è una miniera inesauribile per chi voglia fare dello shopping; ma prima di fare acquisti è bene riflettere sulla pratica utilità di ciò che si compra, soprattutto nel campo dell'abbigliamento: ben difficilmente una volta arrivati a Roma, a Milano o a Torino si sarà disposti a indossare quello che nel West sembrava meraviglioso, come il cappello da cowboy Stetson, gli stivali con la punta ad ago, o quel gioiello indiano tutto colori e luci.

 

Salutiamo la Monument Valley e procediamo verso un'altra meraviglia della natura: il Grand Canyon.

Vi si arriva attraverso una strada di montagna. Il “deserto di pietra”, come qualcuno l'ha chiamato, rappresenta lo spettacolo più desolato e magico del mondo. Esso è la testimonianza diretta dei milioni di anni di vita del fiume Colorado. Lungo 445 chilometri , largo 29 chilometri e profondo 1600 metri, è il risultato dell'attività corrosiva del fiume unita alla lenta ma inesorabile forza della neve, della pioggia, del vento.

 

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È cosparso di precipizi, anfiteatri, pinnacoli, guglie di color rosso, rosa, verde, arancione, violetto. E tutte queste forme, questi colori, sembrano mossi dalla luce del sole, come in un gigantesco caleidoscopio che ruota con le ore del giorno.

Il ranger che mi accoglie all'ingresso del Grand Canyon mi avverte e mi tranquillizza: la reazione più comune alla vista di questa meraviglia della natura è quella di perdere di colpo ogni facoltà di espressione.

Uno scrittore disse: “Le ancestrali idee europee che un uomo ha del paesaggio subiscono un tale colpo che egli resta incapace di profferire parola o comunque di dirne molte.”

Entrati nel Parco Nazionale del Grand Canyon, gli alberi continuano a chiuderci la vista dell'orizzonte. Poi ecco un luogo battezzato “Mather Point”.

La strada sfiora il ciglio dell'abisso e si ha l'impressione di essere giunti ai confini del mondo. La vita sembra assente laggiù in fondo, di balza in balza, verso il letto dove scorre il fiume Colorado.

La luce del Canyon, nell'aria tersa e trasparente, fa risaltare i venti strati di questo immenso crepaccio di roccia, ognuno di un colore diverso; scisti argillosi ocra, calcari gialli e grigi, arenarie bianche e marroni, graniti rosati e neri, colori che divengono tenui, evanescenti verso il mezzogiorno, mentre si incupiscono la sera.

L'erosione ha poi cesellato le rocce creando angoli, protuberanze, spaccature, che rifrangono la luce proiettando ombre multiformi. Dalla profondità del baratro non giunge alcun suono.

E' come se un millenario silenzio e la calma assoluta di un tempo irreale avessero colmato il Grand Canyon, su su fino all'orlo.

Vanni Belli è all'opera. Un lavoro difficile, perché è costretto ad arrampicarsi sugli alberi per cercare di inquadrare insieme le due Lancia Delta e almeno una parte del Grand Canyon.

 

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Alberi bellissimi, come la quercia “Gambel” e i pini “ponderosa”, la cui corteccia ha la fragranza della vaniglia e il cui legno è di un giallo pallido, tenero ma robusto; i primi “pinoes”, contorti, più piccoli dei “ponderosa”, che gli indiani utilizzavano per costruire le “hogan”, le tipiche abitazioni dei navajos ricoperte di terra (la resina dei “pinoes” serve per medicare ferite e come rivestimento impermeabile per cesti di vimini); e infine i ginepri, la cui corteccia veniva intrecciata dai pellerossa per formare morbide stuoie.

Ma San Francisco, la nostra meta finale, ci chiama.

 

(una piccola pausa... troppe foto. State lì, torniamo subito :) )

  • Adoro! 3
  • Grazie! 1

"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

Inviato

Dobbiamo sfruttare le ore della giornata per arrivare a Phoenix, termine della quinta tappa. Scendiamo di nuovo verso il basso. Lassù faceva fresco, ma ben presto ritorna il caldo insopportabile.

Saltiamo Flagstaff, con il suo celebre osservatorio Lowell, dominato da sette giganteschi telescopi per lo studio di tutto il sistema solare. Facciamo una veloce puntatina a Jerome, la più grande città-fantasma di questo Stato.

Deserto e polvere sono ridiventati i dominatori dell'ambiente e l'aria fresca che avevamo respirato lassù, ai bordi del Grand Canyon, è ormai solo un ricordo.

La montagna su cui ci arrampichiamo ora si chiama Cleopatra. Ed ecco finalmente Jerome, la cittadina che negli anni Venti giunse a contare ventimila abitanti. Allora era considerata ricchissima, grazie alle sue miniere di rame; oggi vi sono soltanto quattrocento persone; ci fanno vedere i resti di una miniera, una vecchia casa padronale e quello che loro considerano un monumento (non so quanto nazionale): la “House of Joy”, un ex-luogo di piacere, un posto di lusso, il cui arredamento è stato mantenuto intatto.

Lasciamo Jerome, saltiamo Prescott che nel 1864 venne scelta dal Presidente Lincoln quale sede del governo dello Stato (e in cui, si dice, venne disputato il primo rodeo).

 

Con un caldo insopportabile, come al solito preoccupatissimi per il materiale fotografico (per la conservazione del quale siamo stati costretti a comperare una piccola ghiacciaia), puntiamo su Phoenix, capitale del nuovo West, una delle città più affascinanti degli USA anni duemila.

Le grandi corporation stanno trasferendo qui da New York, da Detroit, da Chicago i loro uffici; a Phoenix ci sono i più begli alberghi e le più raffinate boutique degli Stati Uniti.

Gli appartamenti sono stupendi, arredati senza risparmio. Qui si è sviluppato il nuovo West, quello ricco, commerciale, industriale, finanziario. Phoenix è anche la città del sole; con le sue 4000 ore di esposizione all'anno è la sede ideale per i più avanzati esperimenti di trasformazione dell'energia solare in energia elettrica.

 

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La Conquita - Un ponte collega la terraferma con un'isoletta dell'Oceano Pacifico, dove giungono dall'entroterra le tubazioni di petrolio. Le petroliere vi fanno il pieno.

 

È calata la sera. Con le Lancia Delta abbiamo percorso 721,400 chilometri. Siamo stati alla guida per 7 ore e 28 minuti, ma il tempo impiegato per questa tappa, comprese le soste per foto e visite, è stato di ben 14 ore e 27 minuti. Il consumo medio delle due vetture è stato di 8,133 litri ogni cento chilometri. Contenuto se si pensa che abbiamo viaggiato a una media di 96,616 km/ora.

Siamo tutti assonnati e andiamo a riposare. Non sono soltanto i chilometri la causa della nostra stanchezza, quanto il caldo: quarantasette gradi all'ombra sono veramente insopportabili.

Dovendo vivere per tante ore del giorno nell'abitacolo di un'auto, se ne risente enormemente. Abbiamo sempre i nervi a fior di pelle.

Per fortuna le due Delta non perdono un colpo, non ci tradiscono mai. Qualcuno penserà che queste auto debbano pur avere qualche difetto. Ebbene, a mio avviso ne hanno due soltanto: la tappezzeria che accentua il caldo, e i serbatoi che a causa del dispositivo di sfiato intasato, oppure per un vizio “costituzionale”, tendono a gonfiarsi, a deformarsi per il gran caldo, con espulsione di benzina.

Onde evitare guai peggiori, siamo costretti a viaggiare con i tappi quasi completamente svitati. È l'unico rimedio.

Ma per tutto il resto non vi è nulla da eccepire.

Ci alziamo presto: la sesta tappa ci attende. Abbiamo programmato di dormire ai bordi del Pacifico, a Santa Monica. Di qui raggiungeremo due punti importanti del nostro viaggio, Los Angeles e Hollywood, ma soprattutto arriveremo al mare: ci rendiamo conto che ormai soltanto l'Oceano Pacifico potrà darci un po' di sollievo.

Come di consueto partiamo prima dell'alba e puntiamo subito verso la California. Procediamo velocemente, ci fermiamo soltanto per i rifornimenti, per qualche boccata d'aria o per rinfrescarci con qualche bibita nei self-service dei distributori di benzina.

 

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Los Lobos - Campi petroliferi

 

La strada corre desolata in quasi alle porte di Los Angeles. Il traffico si fa via via più intenso. È un lavoro di abilità destreggiarsi tra una corsia e l'altra, sfidando i rigori della legge. Ma è anche un'occasione per saggiare le doti di sterzata di queste due Lancia. C'è da dire che i tecnici della Casa torinese hanno curato in particolare la dolcezza d'azionamento dello sterzo e lo hanno isolato dalle reazioni dovute alle asperità stradali.

 

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In contrapposizione ai campi petroliferi dell'immagine precedente, ecco il "pozzo personale". Siamo a Los Angeles, in cerca di panorami da fotografare. Ci imbattiamo in questa villetta, il cui proprietario ha trovato il petrolio... in giardino.

 

Il risultato, alla luce di questo ennesimo test, ci è sembrato senza dubbio positivo. La leggerezza di manovra è assicurata da una demoltiplicazione appena più spinta della norma, che non sembra incidere sensibilmente sulla precisione delle traiettorie, nemmeno nella guida veloce.

L'inclinazione dei fusi a snodo è stata attentamente definita; la corretta geometria degli organi pone l'asse di sterzatura in una posizione ideale rispetto al piano di simmetria delle ruote e in condizioni quindi di massimo “riparo” dalle sollecitazioni verticali generate dal terreno e dai pneumatici.

Invece non ci è sembrato altrettanto curato, ma pur sempre di un buon livello, l'isolamento dello sterzo dagli effetti di trazione: anche sulle Delta si notano alcune esitazioni e indurimenti, sia nelle posizioni estreme di massima sterzata, sia sotto forte accelerazione.

 

Sbuchiamo” a Los Angeles. “Playboy” scriveva, nel 1972: “Se qualcuno avesse dato a un ragazzo di diciott'anni pieno di fantasia, impaziente e desideroso di provare ogni piacere e ogni avventura, un assegno di cento miliardi di dollari e gli avesse concesso carta bianca per costruire una città tale da soddisfare tutti i suoi istinti, ne sarebbe venuto fuori qualcosa di molto simile a Los Angeles.”

I suoi tre milioni di abitanti, i suoi 1202 chilometri quadrati di superficie, i ventitré chilometri di lunghezza, ne fanno una città allucinante, come lo sono tute quelle in cui manca la possibilità di spostarsi a piedi in un habitat di dimensione umana.

È la “macchina” che domina su tutto e tutti.

 

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Poche fotografie e via per la Santa Ana Freeway sino a Disneyland. Solo quaranta chilometri e si passa da un mondo aberrante ad uno irreale, a mezza strada fra i sogni dei bambini e quelli dei grandi.

La fantasia si scatena: si vive il West ma anche l'astronautica; si vive il mondo preistorico dei dinosauri, ma anche il futuro del velocissimo treno monorotaia.

Il tutto in una atmosfera di eterna festa, con ragazzini scatenati che ti passano tra le gambe infilandoti in tasca un lecca-lecca, insudiciandoti la giacca con il cannolo di panna, facendoti inciampare e quasi cadere sui pop-corn seminati dappertutto.

 

Il “Pony Express Raid” è per noi un modo come un altro per vedere il mondo al cinematografo. Non possiamo fermarci molto. Puntiamo su Hollywood.

Il cinema vive qui in ogni strada, ma soprattutto in Hollywood Boulevard. Che cosa guardare? La gente? Fantastica! Le automobili? Quante Rolls Royce! Le attrazioni del teatro cinese con le impronte dei divi di tutti i tempi impresse nel cemento? Quanti personaggi strani!

Ed ecco la star alla ricerca di una parte in qualche film; l'aspirante cantante disperato per mancanza di scritture; il gay agghindato in maniera incredibile. E luci, tante luci, tutte luci.

Hollywood ci impone anche una puntata a Beverly Hills, dove vivono i trentamila ricchi più ricchi del mondo.

Ville da un milione di dollari in su, giardinieri a due milioni di lire al mese, camerieri e cameriere in alta tenuta, Cadillac, Rolls Royce, qualcuna incredibilmente rosa.

Incredibili anche tante costruzioni, come il pazzo castello medievale di Greystone Mansion.

A Santa Monica, in un albergo costruito proprio sulla spiaggia, si conclude la nostra sesta tappa.

721,100 chilometri percorsi alla media di 95,933 chilometri l'ora.

Sono passate più di tredici ore dal momento della partenza da Phoenix; siamo rimasti al volante per 7 ore e 31 minuti di guida effettiva.

Il consumo sempre ottimo: 8,949 litri ogni cento chilometri.

La settima tappa corre tutta lungo l'Oceano Pacifico. Ci porterà da Santa Monica a Monterey. La temperatura ora è mite, anzi, durante le ore del mattino e della sera fa addirittura fresco.

La strada corre fra serre ricche di ogni tipo di verdura e grandi coltivazioni, soprattutto di fragole.

653,400 chilometri separano Santa Monica da Monterey; li percorreremo senza quasi mai fermarci, in sette ore e 28 minuti, alla media di 88,178 chilometri all'ora.

Decidiamo di “tirar via” per dedicare più spazio alla parte fotografica a Monterey. Si tratta di una penisola unica al mondo, in cui domina la Fisherman's Warf, cioè il vecchio porto del pesce, ora centro di attrazione turistica.

 

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Monterey - Riproduzione di un vecchio villaggio

 

Belli i negozietti, che vendono collezioni di conchiglie, minerali, ricordi marinari. Tanti anni fa, qui facevano capo i pescherecci che solcavano i mari a caccia di sardine.

Steinbeck rese famoso questo luogo con il suo romanzo “Vicolo Cannery”. Ma Monterey significa anche Pebble Beach, un piccolo promontorio su cui si estendono i più bei campi da golf. Un'intera penisola di proprietà privata, scoperta agli inizi del novecento, dove vivono i leoni marini, i pellicani, i cormorani, le lontre; dove si ergono alberi tanto belli quanto curiosi, come il “Lone Cypress”, il cipresso centenario corroso, sbiancato, tutto nodi.

 

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Ma anche Monterey è destinata a passare subito tra i ricordi del nostro viaggio. San Francisco ci attende, “soltanto” 358,800 chilometri che percorriamo in quattro ore e cinquantasette minuti, alla media di 72,484 chilometri all'ora.

Prendiamo la strada interna, la numero cinque, per poter fotografare alcuni campi petroliferi. Il consumo, alla fine, si alzerà leggermente: 9,025 litri ogni cento chilometri.

A San Francisco è tutto moderno, eccezion fatta per la Missione Dolores, una chiesetta con il tetto in legno del 1776. Il resto è storia di oggi: il Golden Gate Bridge, il ponte che divide la celebre baia dall'Oceano Pacifico; il tram tirato da un cavo sotterraneo, che si arrampica senza alcuna apparente difficoltà lungo le erte salite della città; la Lombard Street adorna di migliaia di ortensie in fiore; Chinatown, la più grande città cinese al di fuori della Cina; il Fisherman's Warf, punto-chiave dei pescatori di tutta l'America.

 

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Il nostro viaggio si è concluso. Merito delle due Lancia Delta che non hanno mai perso un colpo, ma merito anche (chissà perché si dimenticano sempre) dei pneumatici, i Pirelli “P3 Serie 70”, che hanno lavorato in maniera esemplare.

Questo radiale metallico, progettato per una guida veloce e brillante è l'ideale per una Delta. E ciò è dovuto alla maggior larghezza del battistrada (rispetto a quelli “Serie 80”), all'inserimento del quarto incavo longitudinale e all'architettura ribassata.

È stato nella Monument Valley, durante le nostre prove, che questi Pirelli ci hanno offerto la prova delle loro possibilità.

Soprattutto si sono fatti notare per la sbalorditiva tenuta di strada, che va ascritta in particolare alla sezione ribassata, che offre una maggiore stabilità direzionale. La poca pioggia che abbiamo incontrato (soltanto una spruzzata verso San Francisco) ha rivelato anche la loro buona tenuta sul bagnato.

E il tutto, si badi bene, provato con vetture che per i motivi che ho già descritto nella prima puntata (cattivo ancoraggio durante il tragitto via mare) non erano nelle migliori condizioni. Ecco perché ci è stato impossibile misurare il consumo del battistrada.

 

Si conclude così un'altra entusiasmante avventura di Gente Motori. Ma il prossimo raid è già alle porte.

 

Fine

 

Ed eccoci ai saluti. Le avventure della Delta, comunque, non sono ancora finite. Gianni diceva bene in chiusura, parlando di un altro raid già in rampa di lancio. I protagonisti? Sempre gli stessi: la squadra di Gente Motori e le compatte Lancia. La prossima volta però, il clima sarà... beh, un po' più freschino.

Chiudo con questa bella immagine, dedicata al Direttore, che non si limitò a vivere la passione per l'auto facendone fredda analisi. Con creatività e spirito d'avventura, la usò per girare il mondo, facendo il possibile, attraverso le sue parole scritte e le sue foto, per portarci con lui.

 

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Grazie di tutto, Gianni.

 

Al prossimo raid!

 

GTC

 

 

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"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

  • PaoloGTC ha modificato il titolo in I raid di Gente Motori - N.7 - Due Lancia Delta sui sentieri di "Ombre rosse"
Inviato

Bellissimi..ma io vorrei vedere le Ritmo in Amazzonia .

Tra l'altro almeno all'epoca collegamenti stradali con Manaus non ce ne erano.

Archepensevoli spanciasentire Socing.

Inviato
10 minuti fa, stev66 scrive:

Bellissimi..ma io vorrei vedere le Ritmo in Amazzonia .

Tra l'altro almeno all'epoca collegamenti stradali con Manaus non ce ne erano.

 

Arriverà a breve anche la Ritmo 😉

  • Mi Piace 1

"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

Inviato
2 ore fa, Mazinga76 scrive:

Che meraviglia! Solo la mancanza di tempo mi ha impedito di leggermelo tutto d'un fiato. Emozionante e coinvolgente. Bellissimo.

 

Eh sì, serve un po' di tempo per digerirlo tutto :D 

Ai tempi era più facile star dietro a Gianni,  perchè le sue avventure venivano pubblicate a puntate. Solitamente tre, come in questo caso (Ottobre e Novembre 1980, Gennaio 1981).

C'era tempo a sufficienza per metabolizzare tutti i pensieri del Diretùr :D

Messo tutto insieme diventa un certo malloppo... alla fine della trascrizione mi sono ritrovato con un file di 16 pagine, cui andavano abbinate le foto (che manco avete visto tutte, perchè come scrivevo riguardo le immagini scattate da Vanni Belli al ballerino incontrato a New Orleans, molte - tra cui alcune splendide panoramiche della Monument Valley con le due Delta incastonate come pietre preziose - furono sacrificate dalla stampa su due pagine).

Ad un certo punto mi son detto "ma quanto scriveva quell'uomo??" e mi son tornate in mente le parole di Enrico Violi, "allievo" di Marin ai tempi d'oro della rivista e direttore di ciò che ne restava (ossia quel GM sottile, ultimo tipo, pubblicato fino alla chiusura definitiva) nel periodo in cui ci scambiammo qualche mail, parlando dei tempi andati.

 

"Gianni aveva l'idea, metteva in atto una macchina organizzatissima e in pochi giorni il piano di battaglia era pronto. Partiva, con la sua squadra al seguito. Al ritorno era una sarabanda di riunioni messe in stand-by durante la sua assenza, nelle quali si cercava di portare avanti tutto il classico lavoro di chi gestisce un mensile... riunioni che cercavamo di organizzare in fretta e furia quando riuscivamo a fermarlo un attimo.

Appena rientrava in sede, si dirigeva alla sua scrivania, con il suo puzzolente sigaro, e con quelle dita cicciotte iniziava a battere a macchina. Scriveva, scriveva, scriveva...

Riunioni, decisioni, interviste, prove, stesura delle memorie del raid appena concluso. Nel frattempo, lì seduto a digitare, aveva un'altra idea... e prendeva in mano il telefono.

Completamente assorbiti dalla caotica vita di redazione di quegli anni, a volte ci sfuggivano alcune comunicazioni interne, e capitava spesso di andare a cercarlo per sottoporgli una questione... senza riuscire a trovarlo.

Non c'era più, era già partito per un'altra avventura."

 

 

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"... guarda la libidine sarebbe per il si, ma il pilota dopo il gran premio ha bisogno il suo descanso... e poi è scattata la regola numero due: perlustrazione del pueblo e ricerca de los amigos... ah Ivana, mi raccomando il panta nell'armadio, il pantalone bello diritto. E un po' d'ordine in stanza... see you later!" (Il Dogui, Vacanze di Natale)

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