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Sì sì da qualche parte in archivio c'è, la incontreremo. Dovrebbe essere del 1986. Per gli accenti, ti dico, posso aver combinato qualche pasticcio io nella trascrizione. I nomi invece, alzo le mani. Ammettendo di non essere una cima in geografia riguardo quella parte del mondo, li ho ripresi tali e quali. A volte i suoi testi denunciano l'età, sia per qualche imprecisione dovuta magari ad una ricerca meno approfondita di quelle che si possono fare oggi (o più semplicemente una certa frettolosità) sia per lo stile. Ad esempio sono stato io, in un'altra occasione, a cambiare in "New York" tutti i suoi "Nuova York"... modo di chiamare la Grande Mela decisamente obsoleto, al punto da farmi pensare "no, dai, va bene riportare l'esatto documento, ma se scrivo 'Nuova York' mi mandano a stendere "
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L'ho pensato pure io Se non ricordo male, in fase di trapasso c'era una nuova immatricolazione solo in caso di cambio di provincia... o sbaglio? Le avranno mandate lontano perchè immagina di essere un torinese secondo proprietario, e di avere in famiglia o fra i conoscenti un lettore di Gente Motori "Scusa Giangiuseppe, non è la tua macchina questa?" Comunque accadde in tempi successivi, che una vettura usata da GM per un raid tornasse a far parlare di sè e della sua seconda vita, tramite una lettera pubblicata nelle pagine dedicate ai lettori. Non ricordo bene i dettagli, ma l'auto in questione era l'Espace usata da GM per il viaggio "Sulle orme di Francis Drake", tutta bardata di adesivi Gente Motori, ricchi premi e cotillons. Rientrata in rete come usato (non so se GM l'avesse comprata e rivenduta, oppure l'avesse avuta in comodato da Renault Italia) rimase in vendita con tutti gli adesivi attaccati, e un pazzoide lettore che aveva bisogno di un monovolume decise di comprarla e tenerla proprio così.
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Penso che per molti guidatori che avevano fatto la gavetta in un periodo in cui lo specchio destro era un accessorio cui nemmeno di pensava, fosse più una fastidiosa sporgenza da tenere in considerazione quando si trattava di prendere la mira per infilarsi da qualche parte più che un aiuto. Penso a mio padre: nel 1985 andammo a vivere in un palazzo costruito negli anni '70, che aveva dei box con le porte... dell'epoca. Per dare un'idea, con la Ritmo ci entrava abbastanza* bene. Con la prima Vectra già doveva stare attento, con la seconda tanto quanto, l'auto era quella. Con la GTC non riesce ad entrare se tiene aperti entrambi gli specchi, ne deve chiudere uno. * abbastanza perchè il nostro box era quello con l'accesso più difficile. In fondo al cortile, a destra, rasente il muro, appena dietro l'angolo del palazzo. Praticamente il primo della fila, in cui tutti gli altri a partire dal secondo erano più agevoli. Spazio tra le porte dei box ed il muro di confine, 5-6 metri. Doveva quindi andare più avanti e ritirarla in retromarcia, voltando tutto a destra e pelando il pilastro dx del box col parafango posteriore. Lo fa ancora oggi con la GTC, usando lo specchio per tenere d'occhio la fiancata. Non aveva lo specchio sulla Ritmo, andava ad occhio attraverso il finestrino posteriore dx, e il margine tra lamiera e cemento era su 5 cm ogni volta. Non sapeva cosa fosse lo specchio destro, non l'aveva mai avuto. Si era abituato a "indovinare" quanto spazio c'era tra il parafango e il pilastro. Penso che tanti facessero come lui, forse loro avevano un altro "occhio", e quindi pensassero "cosa me ne faccio di un altro specchio? Va a finire che lo strappo via la prima volta che faccio un 'pelo'". Mio padre attraversava pure, praticamente ogni giorno, un sottopassaggio ferroviario costruito in un'epoca in cui al massimo si girava in bicicletta, ed era largo "poco più che una Ritmo con lo specchio aperto" Ci passava in seconda, senza fermarsi, due dita tra lo specchio e il muro e il resto di là; sapeva che la macchina ci stava era talmente stretto che provò una volta sola a metterci la Vectra, 170 più due specchi, e tornò indietro, non entrava proprio ... oggi siamo abituati ad averlo ovunque lo specchio destro, quando si fa retro è naturale buttare l'occhio per vedere dove sta il parafango se stai pelando qualcosa. Se ce lo togliessero, ci sarebbe da ridere. Che ne so io dove finisce 'sta X1, si capisce un tubo Forse forse con la Tipo (che comunque lo ha, sicuramente pagato a parte dal primo proprietario ) potrei evitare di far danni, piatta e quadrata che è. Tornando al tema: un'altra Dedra teoricamente "turbolenta" in prova. Dico teoricamente perchè noto ora, anni dopo aver ritirato le fotografie nella cartella dedicata alle Turbo/Integrale, che oltre all'adesivo "I" che ci dice che il proto andava a spassarsela pure all'estero, ce n'è uno sullo sportello carburante. Non riesco a leggerlo, indicherà che la vettura va a benzina verde o a gasolio? Potrebbe essere una normale Tds con le ruote di una Delta? Qualcuno riesce a capire, guardando sotto al paraurti posteriore, se si tratta di una 4x4? (dal fondo della sala si levò un grido: "Paolo!!! Ma cosa ca... ce ne frega???!!!" ) (vettura già in produzione, zero modifiche sperimentali di carrozzeria al prototipo, devo ancora capire adesso il perchè di quelle due frecce scocchate eran rotte? o forse aveva preso una bottarella: quel frontale non è esattamente assemblato a regola d'arte )
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Nemmeno io (alcune Tempra invece sì). Probabile che sia finito poi con l'essere uno di quegli optional obbligatori perchè "uscivano tutte così". A me incuriosisce di più il fatto che mandassero in giro i collaudatori con uno specchio solo. Vetture col posteriore coperto o con la visibilità attraverso il lunotto inficiata dalle pinne posticce. Alla fine erano in mezzo al traffico, avere due specchi sarebbe stato più sicuro. Anche per evitare le rogne in caso di incidente. Chiaro che tramite le targhe prova erano assicurati come tutti, ma che fastidio cozzare e fermarsi in mezzo al traffico con un proto
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Quella di Massagrande ha il serbatoio che, a forza di botte, ha ridotto (e di parecchio) la sua capienza. La fortuna comunque ci ha assistito. La tappa che ci attende, da Santa Elena de Uaren a Boa Vista, non è lunga: 243,700 chilometri, ma anche questi accidentati. Le pratiche di frontiera sono piuttosto laboriose, soprattutto perché dobbiamo far recuperare alla Fiat Venezuela circa settanta milioni di lire versati come cauzione per la temporanea importazione delle due Ritmo 65. I documenti si sprecano, ma alla fine passiamo dal Venezuela al Brasile. Per raggiungere Boa Vista impieghiamo otto ore e 43 minuti, di cui 4 ore e 16 minuti di guida effettiva. Media: 37,117 chilometri all'ora. Ci avviciniamo all'Equatore; Boa Vista ci accoglie con una di quelle magnifiche serate da film hollywoodiano. Ovunque il profumo di fuori esotici, in un'aria calda, sensuale. Al centro della città il monumento all'eroe nazionale: il “garimpeiro”, il cercatore di diamanti. La strada è abbastanza insidiosa, ma non perfida come nella terza tappa. Le auto perfette, come sempre. I consumi? Sempre gli stessi. Siamo così giunti all'ultima tappa, quella che assieme alla terza sarà la più dura per noi e per le automobili. Queste ultime sono sempre più sporche, sempre più impregnate di terra e polvere rossa, ma dall'efficienza immutata. La quinta tappa ci deve portare da Boa Vista a Manaus: 805,400 chilometri, di cui 775 di terra rossa e soltanto 30,400 d'asfalto. Il serpe rosso che avevo sognato in Italia è realtà: è la vera Amazzonia, che ci costerà quindici ore e cinquantatré minuti di fatica, di cui undici ore e diciotto minuti di guida effettiva; che ci costringerà a passare con mezzi di fortuna il Rio Branco e il Rio Negro per arrivare laggiù a Manaus, la capitale dell'Amazzonia, dove il Rio Negro e il Rio Solimoes incontrandosi formano il Rio delle Amazzoni. Non vi è nulla al mondo che eguagli questo fiume immenso, soprattutto là dove nasce col nome di Rio delle Amazzoni, dove la profondità è di 75 metri e il corso così impetuoso che le acque nere del fiume proveniente dal Nord non riescono a mescolarsi con quelle del Rio Solimoes. Più che un fiume è un mare, con la sua marea (la piena annuale) che qui chiamano “echante”, quando il livello sale, e “vasante”, quando il livello scende. Boa Vista. Monumento al "garimpeiro" Con le nostre piccole “scialuppe” procediamo in questo mare di verde. Ogni tanto si notano delle fenditure: sono i sentieri dei piantatori di manioca e dei raccoglitori di gomma. In questo caos vegetale, ogni tanto una piccola radura e degli indios, semi-civilizzati e semi-nomadi. Bruciano un tratto di foresta: la cenere concima il terreno e l'indio semina le cose indispensabili per vivere. Sfruttato il terreno si trasferirà in un altro luogo. Ecco perché, di quando in quando, si trovano zone fumanti, alberi mezzi carbonizzati, capanne di indios nuove e altre abbandonate. Questo è un altro paradosso dell'Amazzonia. Vista così superficialmente la si può giudicare come la più fertile regione della Terra. Invece i pochi abitanti civili debbono essere sfamati con prodotti che arrivano da Rio, da San Paolo, da altre regioni del Brasile. Colpevole di questo è il suolo, estremamente povero. Uno strato di pochi centimetri di humus su un suolo di sabbia. Nel grande ciclo della vita dell'Amazzonia tutto si basa sulla fotosintesi clorofilliana. Boa Vista. La vita è tutta aerea, mentre le piogge equatoriali portano via l'humus man mano che questo si forma. Ecco perché tutte le forme di vita, anche le più mostruose, più impressionanti, più vive, sono aeree; grandi tronchi, liane che corrono per decine e decine di metri, foglie gigantesche, fiori stupendi, ma sotto, radici piccole, come gambe da pigmeo in un corpo gigante. Avanziamo nella foresta fra mille sussurri. Vediamo degli indios e cerchiamo di richiamare la loro attenzione. Ma scappano. Incocciamo anche in un posto di blocco dell'esercito brasiliano. Registrano i numeri di targa delle nostre auto, i nostri nomi; ci danno un paio d'ore di tempo per attraversare poco più di un centinaio di chilometri, che dobbiamo percorrere a finestrini alzati e senza mai fermarci. Caracarai. Nella zona “bazzica” la tribù degli indios Waimiri Abonari, di cui vi ho già parlato. Procediamo veloci guardandoci intorno, ma non vediamo nessuno. Alla fine del tratto, un'altra pattuglia e registrazione di “scarico”. Anche gli animali sono sempre rimasti latitanti in questo viaggio. Solo uccelli, tanti, bellissimi, qualche tucano, un paio di capibara, un solo serpente e basta. Animali ce ne sono, ma bisogna cercarli nella foresta; l'Amazzonia non è uno zoo senza sbarre. Siamo tutti molto stanchi. Poco dopo mezzogiorno raggiungiamo l'Equatore; il sole è proprio a picco, non esiste l'ombra. Temperatura 47 gradi all'ombra. L'umidità? 80 per cento. C'è da sfiancare un bufalo. Eppure procediamo. Caracarai. Abbiamo finito le bibite, l'acqua e la frutta. Ma, ciò che è importante, le due Ritmo 65 funzionano nel modo migliore. Sospensioni e architettura dei sedili ci consentono di procedere con un certo comfort, ma dalla polvere non riusciamo più a salvarci. A Manaus ci accorgeremo che le nostre Samsonite non sono riuscite a difendere li abiti dalla polvere. Ancor oggi ce la portiamo dietro. Man mano che ci avviciniamo a Manaus incontriamo anche capanne abitate da “seringueiros”. Sono i resti di quell'esercito di raccoglitori di lattice di gomma, questa materia prima che tra il 1890 e il 1910 inaugurò una nuova età dell'oro. Una ricchezza improvvisa, nata da un albero, chiamato “hevea brasiliensis”, che cresce solitario nella profondità della foresta amazzonica. Basta inciderne il tronco ed ecco sgorgare un lattice che, bollito in una caldaia, si trasforma in gomma. Il mondo industrializzato occidentale aveva sempre più fame di gomma e il “seringueiro” trasformò la zona, soprattutto Manaus che fino a quel momento non era altro che un accampamento di militari, in un centro di frenetico commercio della gomma. Riserva Indios Waimiri-Abonari. Migliaia e migliaia di uomini incominciarono a risalire il grande fiume, in una corsa simile a quella che quarant'anni prima si era scatenata in California a causa dell'oro. Poi il crollo. Henry Alexander Wickam riuscì a portare con sé a Londra settantamila sementi dell'albero della gomma che vennero piantati in Estremo Oriente, nei Paesi attenenti alla Corona inglese. Fu il crollo dei prezzi e a Manaus, per moltissima gente, la fame. Qualche “seringueiro” lo abbiamo incontrato anche noi. Un po' inebetito, fuori dal mondo, vive di illusioni o forse soltanto di ricordi. È comunque solo in un mondo in cui l'albero della gomma non riveste più l'importanza degli anni a cavallo del ventesimo secolo. Siamo ormai agli ultimi cento chilometri. La stanchezza si è ormai impadronita di tutti. I nervi sono a fior di pelle. Massagrande resta senza benzina, col suo serbatoio ridotto a causa dei colpi subiti. Per fortuna abbiamo con noi delle taniche di riserva. Mettiamo un po' di benzina anche nella mia Ritmo 65 per maggior sicurezza. Caracarai. Caracarai. La strada ora scorre sulla roccia, tra fenditure e crepe che mettono a dura prova tutto il complesso automobile. I colpi sono secchi, continui; il formicolio ti prende alle mani e alle braccia. Per di più la strada è tutta a saliscendi; un percorso da montagne russe con paurosi strapiombi a destra e a sinistra. Salite e discese sembrano interminabili. Cala anche la sera e tutto diventa ancora più pericoloso. Temiamo per le nostre auto. Cambio, motore, freni, carrozzeria, telaio, sospensioni, mai collaudo più probante è stato condotto sulla Ritmo. Il risultato? Siamo qui a raccontarvi le nostre avventure, mentre le due Ritmo 65 sono già rientrate in Italia. Saranno esposte in varie città e poi, pulite, ritoccate, riviste continueranno la loro vita in mano a qualche utente. È l'unico mio rimpianto: non riavere con me le vetture che per cinque giorni sono state la nostra ancora di salvezza. Il cippo all'Equatore. Anche l'ultima fatica è stata superata ed ecco, dopo quasi sedici ore, le prime casupole di Manaus. Ci viene incontro l'Hotel Tropical, costruito in piena giungla sulle rive del Rio Negro. In stile coloniale, ma modernissimo, super attrezzato con tre ristoranti, bar, night-club, campi da tennis, giardino tropicale con un magnifico zoo, due piscine. È il punto di partenza per conoscere gli “igarapé”. Fiordi, canali, lagune nella giungla sulle rive dei quali sorgono i villaggi degli indios. Una giungla non addomesticata dove si incontrano ragni grossi come tartarughe, serpenti, scimmie e tanti altri animali. Manaus oggi è zona franca. Vi arrivano nord-americani e brasiliani dalle grandi città per acquistare radio, televisori, impianti Hi-Fi e cento altre cose. Ma i prezzi, almeno per il nostro metro, non sono fra i più favorevoli. La città, oggi, ha perso tutto il suo splendore. Manaus. Manaus. Teatro dell'Opera. Manaus. La bidonville. Laggiù, verso il fiume, la bidonville, poi un centro eguale a quelle di tante altre città sudamericane, resti di un passato fascinoso e affascinante e su tutto, come un meteorite caduto in mezzo alla città, il teatro dell'Opera, costruito portandolo pezzo per pezzo dall'Europa. Ci venne a cantare, arrivando via fiume, persino Enrico Caruso. La nostra avventura è terminata. La tabelle realizzate con le annotazioni di Massagrande contengono tutte le indicazioni tecniche sulle tappe, i consumi, le velocità medie.. ma io che cosa posso aggiungere? Di tanti test questo è stato il più probante. Abbiamo usato due berline di serie, costruite per le strade europee, alla stregua di due fuoristrada. Non le abbiamo risparmiate. Come si sarebbero comportate altre auto? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Una cosa comunque è certa. Si è trattato di una prova irripetibile condotta al limite, in una situazione ambientale difficile. È questa la migliore garanzia di qualità per la Ritmo. Fine A seguire, alcune immagini "bonus" che non sono riuscito ad inserire nel testo (come sempre, erano troppe). Ispirandomi al sommo, l'intento non era quello di annoiarvi, ma se ci fossi riuscito, credetemi, l'ho fatto apposta. GTC Paso de el Danto. Monumento al "soldado pioniero". Traghetto sul Rio Negro. Vista Alegre. Rio Branco.
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Terza parte La piccola sveglia, che ho messo sullo sgangherato tavolino che separa il mio pagliericcio da quello di mia moglie, suona. Ma ero già sveglio da un pezzo. Dalla specie di hotel dove stavo passando la notte non giungeva alcun rumore. Ma da fuori mi giungeva il respiro della foresta, quella foresta che avevamo intravisto la sera prima arrivando a La Clarita. Un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, dove avevamo deciso di pernottare. La foresta respira: è un mormorio, un sussurro, un sordo rombo di tamburi, un pizzicare di corde di violino, un suono di oboe, a cui si aggiungono altri rumori, altri sussurri, che aumentano di intensità, si zittiscono improvvisamente per poi riprendere con un alternarsi di alti e bassi. E, più vicini, il cinguettare di uccelli sconosciuti, il canto del gallo (c'è sempre un gallo, in qualsiasi posto di campagna, che ti dà la sveglia e il canto è uguale dappertutto), lo starnazzare di galline faraone che sembrano aver trovato qui, al margine della foresta, il loro regno. È il momento della sveglia per tutti. La toilette è rapida. Usciamo. Albeggia, l'aria è afosa e umida. Un velo di nebbia, di caligine, copre gli alberi. Non si vede il cielo. I soliti controlli: Massagrande le “sue” automobili, mia moglie i rifornimenti, Vanni Belli le sue macchine fotografiche (perennemente preoccupato per l'elevato grado di umidità e per la polvere che dovremo affrontare e che potrebbe compromettere il suo non facile lavoro). E' il momento di partire. Obbiettivo: raggiungere il confine con il Brasile e la cittadina di Santa Elena de Uairen. È la nostra terza tappa, che sarà lunga 249,500 chilometri. Duecentocinquanta chilometri di terrore. Partiamo affrontando una strada di terra rossa, tutta buche. Abbiamo lasciato alle spalle i “llanos”, le immense distese di savana venezuelana, e siamo nella foresta, in quel pianeta Amazzonia che non ci abbandonerà più fino a Manaus, dove abbiamo fissato il nostro punto di arrivo. Ma arriveremo indenni? Dopo dieci chilometri incontriamo l'ultimo distributore di benzina. Sino al confine con il Brasile non ve ne saranno più. Rifacciamo il pieno di questo pessimo carburante a sessantacinque ottani, ma forse ne ha anche meno. Chiediamo notizie della strada, di cosa ci attende. Ma nessuno sa niente; nessuno sa darci notizie sicure. Racconti, favole, tutto per sentito dire. Non ci resta che verificare di persona. La strada, via via che procediamo, si fa sempre più infida. È una autentica gimcana, una sfida fra i due piloti e i sassi appuntiti, più o meno grossi, disseminati ovunque. Vi sono anche torrenti limacciosi che attraversano la strada; l'acqua ristagna perché fortunatamente da alcuni giorni non piove. Ma in quella melma si nascondono altri sassi: se li urtiamo rischiamo di rimetterci la coppa dell'olio, o magari il serbatoio della benzina. (ma non aveva messo le slitte?) La strada comincia a salire, dobbiamo affrontare un altopiano. Ma ecco improvviso l'agguato: la strada che sale si trasforma improvvisamente in una specie di scala. Con la benzina che abbiamo, con il battito in testa di questi motori, con i fenomeni di autoaccensione continui e ai quali non possiamo porre rimedio, forse non riusciremo a farcela. Nella migliore delle ipotesi ci rimetteremo le frizioni. Il nostro è un autentico consiglio di guerra: continuare o ritornare? “Continuare.” A turno io e Massagrande, a piedi, ci impegniamo a regolare la marcia di uno e dell'altro. Le povere Ritmo piangono. La Clarita. Non mi sono mai entusiasmato eccessivamente per un motore; non sono cioè un patito della meccanica. Ma nel sentire questi poveri motori delle Ritmo piangere, le sospensioni chiedere aiuto, le carrozzerie torcersi in cento innaturali movimenti, anch'io ho incominciato a soffrire. Prima marcia, raramente seconda; giocare di frizione e acceleratore; un occhio puntato alla strada e l'altro all'amico che ti fa segno dove passare. E non siamo che agli inizi. Finiscono le “scale” e con loro... sparisce definitivamente la strada. E' sommersa da sassi, o asportata da torrenti. A turno un tratto in auto e un tratto a piedi a spostare sassi, togliere tronchi, tracciare il percorso. Siamo in viaggio da un paio d'ore e già la stanchezza si fa sentire. La nebbia è sparita, c'è il sole, fa già caldo e il grado di umidità è elevatissimo. Attorno a noi, sempre la foresta: uno degli spettacoli assoluti della natura. La foresta amazzonica l'avevo già sorvolata in aereo, andando e ritornando da Rio de Janeiro dove mi ero recato per provare la vetturetta ad alcool della Fiat. Dall'alto appare come un mare vegetale sul quale emergono qua e là i tronchi bianchi degli alberi di cocco. Ma dal basso la foresta offre un volto diverso, che non ha eguali in altre parti del mondo. Questa che stiamo attraversando è a cinque strati. La Clarita. Sono come cinque piani di un immenso caseggiato a cui bisogna aggiungere l'attico, forse il più bello, dove vivono i fiori più fantastici, le orchidee più colorate, dove trionfa la natura nei suoi colori più fantasmagorici. Poi, scendendo verso il basso, il quinto piano, caratterizzato dalle ampie chiome a ombrello degli alberi più alti, che possono raggiungere anche i cinquanta metri; poi quelli di media altezza, con le chiome a zazzera; il terzo piano è molto compatto e forma la barriera più consistente ai raggi del sole; poi gli ultimi due, formati da una vegetazione che diventa sempre più rada man mano che si scende. Non conosco nulla di botanica, a parte quei pochi striminziti fiori che sopravvivono nella mia casa di cittadino. Però fra questi alberi riuscivo a riconoscere i ficus, i filodendri, quelli che noi chiamiamo stelle di Natale, con le foglie diventare rosse e che i botanici indicano con il nome di “Euphorbia Pulcherrima”. La Escalera. Anche le felci ho riconosciuto, ma qui tutto è caratterizzato dalle dimensioni: ciclopiche, innaturali. I molti millenni di crescita indisturbata hanno consentito a tutte queste specie di evolversi in una straordinaria molteplicità. È come trovarsi in una immensa serra naturale, dove l'inverno non arriva mai, dove la vita e la morte si susseguono con una rapidità impressionante, perché la morte dell'uno è la vita dell'altro. Tutto germoglia, cresce, fiorisce, fruttifica con un ritmo vertiginoso. La strada frattanto continua a salire. Impieghiamo cinquantacinque minuti per attraversare un punto in cui l'acqua ha cancellato il tracciato. I motori fanno quello che possono, ma le sospensioni sono meravigliose e lo sterzo è preciso. La Escalera. E che dire dei pneumatici, di questi Pirelli P3 che in queste condizioni si comportano come degli autentici pneumatici da fuoristrada? Procediamo a fatica, tutti soli in questo mare di verde, senza mai incontrare anima viva, un camion, un'automobile, un essere umano. Il sole è già alto e l'umidità è diventata opprimente. Siamo sui trentanove gradi all'ombra con un 48 per cento di umidità. Finalmente sbuchiamo su un vasto altopiano. La Escalera. La strada migliora, se di strada si può parlare, o per lo meno, non essendo più in pendenza e quindi soggetta ad essere dilavata e cancellata dalle piogge equatoriali, corre con una certa uniformità. La nostra attenzione non viene mai meno. La foresta lascia il passo a vastissimi prati, che farebbero la fortuna dei nostri allevatori di bestiame. Invece qui non c'è nessuno. La Escalera. Siamo giunti al Paso de El Danto e si profila un monumento: è dedicato al “Soldado pionero”. Fotografie d'obbligo e un attimo di sosta. Continuiamo verso il nostro traguardo di giornata, con la strada sempre infida, che richiede tutta la nostra attenzione. Vediamo del fumo all'orizzonte. Speriamo di trovare un villaggio o qualche cosa di simile. La Escalera. Invece è un accampamento militare: posto di controllo; abbiamo tutto in ordine. I militari sono molto gentili e ci chiedono di portare a Santa Elena de Uairen un portaordini. La cosa ci mette di buon umore. Se non fossimo passati noi, chissà mai quando questi ordini sarebbero arrivati a destinazione. Il soldato viene con noi. Viaggerà zitto zitto, mai un sorriso, una parola. Un grazie solo all'arrivo, che avviene dieci ore e cinquanta minuti dopo. Le ore di guida effettiva sono state 6 e trentanove minuti. Abbiamo perso quattro ore e undici minuti per qualche foto e per le tante peripezie. La media è stata bassissima: 37,518 chilometri all'ora, ma l'essere arrivati al confine tra Venezuela e Brasile è autentica fortuna. Paso de El Danto. Spuntiamo alla periferia del paese, poche case al margine di una zona tutta montagne. Siamo stanchi, abbruttiti, affamati e assetati. Puzzolenti, anche. Abbiamo sudato le classiche sette camicie. Tutti ci guardano come dei fantasmi. Il militare se ne va, barcolla un po'; chissà a cosa sta pensando. I consumi sono stati sempre contenuti: 9,979 litri/100 chilometri la mia Ritmo; 10,060 litri/100 chilometri quella pilotata da Massagrande. Pernottiamo a Santa Elena de Uairen. Il confine lo attraverseremo l'indomani. Il problema è quello della benzina: con questo carburante possiamo andare incontro al peggio. Santa Elena de Uairen. “Dio vede e provvede” è stato un po' il nostro motto di questi giorni e Dio ci è venuto ancora una volta incontro, facendoci conoscere in questo paesino di frontiera un italiano, un romano: Franco Melchiorri, trapiantatosi qualche anno fa in questo paese dello stato di Bolivar. Alto, asciutto, baffetti da moschettiere, a suo modo artista (fotografo, pittore, scultore), Melchiorri ha tagliato i ponti con l'Italia e la nostra civiltà. Ha una moglie venezuelana, due figli stupendi, una graziosa casa sulle cui pareti campeggiano quadri da lui dipinti, un piccolo laboratorio fotografico e, benché lo neghi, tanta nostalgia per l'Italia dove, a Ostia, vive una sorella. Ci invita a casa sua ed ecco che “Dio provvede”: Melchiorri ha un suo rifornimento di benzina Super. Non è la Super italiana, ma è certamente migliore di quella venduta alle pompe. Beviamo un caffè e Melchiorri ci parla della sua passione motoristica, dei suoi viaggi in sella a una moto sfidando selvaggi e sentieri sconosciuti. “Lei ha una grande fortuna”, mi dice Melchiorri, “quella di poter ammirare la foresta amazzonica. Da domani la vedrà. È forse il più grande spettacolo della natura. Nulla è più monotono di essa, ma la sua monotonia è una spinta ad andare sempre più avanti, per vedere ancora di più, sempre di più.” Il discorso cade sul Rio delle Amazzoni. “Sa perché si chiama così?”, mi dice l'amico italiano. “Tutto si rifà alle parole dettate nel 1540 dal frate spagnolo Gaspare Carjaval, uno di quegli uomini leggendari che partirono dal Perù con pochi viveri e poche armi e navigarono per mesi su fiumi sempre più grandi, immersi in una foresta in cui i raggi del sole non riuscivano a penetrare. Quest'uomo lasciò una testimonianza: 'Improvvisamente vidi delle donne, armate di frecce e di archi, che scortavano gli uomini al combattimento e lottavano con coraggio superiore a quello degli uomini stessi. E quando essi cercavano di fuggire, usavano gli archi come mazze per colpirli. Facevano pensare alle amazzoni. Difficilmente si potrà credere a un comportamento così lontano da quello che è la normale natura delle donne. Franciso Orellana, il mio capitano, volle sapere qualche cosa di più su queste donne alte, intrepide, bionde e nude. Come potevano avere figli visto che non si sposano e non vogliono uomini accanto a loro? Gli indios gli spiegarono che ogni tanto esse invadono qualche regno vicino, lottano, fanno dei prigionieri che portano con sé per l'accoppiamento; poi li rimandano a casa. Quando i bambini vengono alla luce, uccidono quelli di sesso maschile e mandano i cadaveri ai padri. Allevano invece con grande amore le figlie, istruendole all'arte della guerra.' A questa leggenda”, conclude Franco Melchiorri, “il re dei fiumi deve il suo nome, Rio delle Amazzoni, e la regione il nome di Amazzonia.” Lasciamo Melchiorri e Santa Elena de Uairen e ripartiamo con le due Ritmo 65 rifornite sino all'orlo di benzina Super. Non abbiamo consumato un grammo d'olio. Le ispezioniamo dal di sotto. La mia, quella azzurra, ha un bozzo pauroso nella slitta posta a difesa del motore. (ah, ecco... c'erano le slitte ... noi andiamo in pausa un attimo, vi lascio in compagnia di due amici incontrati per strada ) A fra poco col finale
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Seconda parte Lasciamo alle spalle Caracas, la megalopoli venezuelana e affrontiamo la prima tappa. Ci siamo proposti di percorrere circa ottocento chilometri, cioè da Caracas a Porto Ordaz. In realtà faremo soltanto quattrocento metri in meno, cioè 799,600 chilometri, tutti asfaltati, di cui 104,900 in città, 71,700 in autostrada e 623 su strade urbane. Rimaniamo al volante tredici ore e cinquanta minuti, di cui dieci e trentatré di guida effettiva. La media è di 75,791 chilometri all'ora. Il traffico è molto intenso soprattutto per uscire da Caracas: circa cento chilometri di strada particolarmente trafficata, dove i “locali” guidano alla garibaldina. Incocciamo in una serie di paurosi acquazzoni che riducono molto la visibilità e ci costringono a guidare con prudenza. Fa sempre molto caldo: da una temperatura iniziale mattutina di ventisei gradi centigradi, si passa ben presto ai 38-39 gradi delle ore più calde; l'umidità si aggira intorno al 48-50 per cento. Tutto questo ci consente di fare alcune considerazioni sulle nostre Ritmo. Innanzitutto, la ventilazione interna è stata migliorata: la circolazione d'aria infatti è superiore a quella riscontrata sulle Ritmo che abbiamo provato un anno fa da Montreal a Miami. Il ventilatore centrifugo (che ha una maggiore portata d'aria e si presenta più silenzioso) fa sì che i vetri non si appannino. Non è l'ideale; però un miglioramento, e notevole, vi è stato. Seconda considerazione le gomme. L'asfalto è discontinuo e tremendamente insidioso, a causa dello strato di terra rossa che lo ricopre, proveniente dai campi che costeggiano la strada. Bisogna quindi fare attenzione a non frenare bruscamente e a “pennellare” le curve dosando l'acceleratore. I Pirelli P3 Tubeless in queste condizioni si dimostrano ottimi: tengono perfettamente, ammortizzando le diseguaglianze del manto stradale e consentendo di mantenere con sicurezza la traiettoria impostata dal pilota. Caracas, periferia. Il mercato degli indios. Seguiamo la cosa sino a Barcellona e a Porto La Cruz. In lontananza, tra le brume del Mar dei Caraibi, emerge la Tortuga, isola di pirati per antonomasia. Più lontano, sulla destra, s'intravede l'isola Margarita, 850 km quadrati, la più vasta del Venezuela. A Porto La Cruz ci fermiamo per fare rifornimento e per mettere qualcosa sotto i denti. Distributore di benzina e bar sono gestiti da Alvarez Mangueira, un simpatico bianco di origini spagnole. Si avvicina mentre con un cannocchiale osservo queste isole. “Vede”, mi dice in un misto di spagnolo e francese, “quella laggiù è l'isola Margarita. Centinaia di anni fa era abitata dagli indios Guaiqueri, buoni, leali, che vivevano in pace con tutti. Un giorno furono attaccati dai feroci indios Caribes, provenienti dal continente. Ne ammazzarono moltissimi. I pochi rimasti, per nascondere ai figli questa strage, o forse per trovare una giustificazione alla loro sconfitta, crearono una leggenda: questa. Una bella sacerdotessa Guaiqueri mise al mondo, sotto l'effetto di un sortilegio, un mostro. Prima che esso diventasse pericoloso, i saggi della tribù lo legarono a un tronco e gli diedero fuoco. Ma una nube nera si levò dal rogo, mentre un vento fortissimo disperdeva le ceneri su tutte le isole e sul continente. Ciascun frammento di questa cenere generò un indios Caribe, figlio del mostro la cui cattiveria invano si era cercato di distruggere con il fuoco.” Alvarez mi racconta questa storia con enfasi, quasi fosse la sua storia e quella della sua famiglia. Mi dice che l'isola Margarita venne visitata nel 1498 da Cristobal Colomb (il nostro Colombo), che venne accolto con tutti gli onori. I pochi indios Guaiqueri gli regalarono in segno di deferenza le preziose perle di cui le acque dei Caraibi erano ricche. Questo segnò l'inizio di una loro nuova distruzione: gli spagnoli tornarono e li costrinsero a cercare perle. Il mare insidioso, i pescecani, il sanguinario tiranno Lope de Aguirre, che nel 1561 incominciò a “regnare” sull'isola, decretarono la loro fine o quasi. Lasciamo Alvarez Mangueira e Porto La Cruz; diamo un addio al mare e ci inoltriamo verso l'interno. Il mare non lo vedremo più, in compenso ci avviamo verso le regioni dei grandi fiumi, il primo dei quali sarà l'Orinoco, immenso, maestoso come tutti i fiumi venezuelani-brasiliani. L'Orinoco lo incontriamo nei pressi di Ciudad Guayana, che insieme a San Felix, Matanzas e Porto Ordaz è diventata ormai una città unica. La zona attraversata è abbastanza monotona: solo un mare d'erba, che qui chiamano “llano”, cioè “piano”, e rappresenta il toponimo delle pianure percorse dall'Orinoco. Ciudad Bolivar. Ponte sull'Orinoco. Un vero mare d'erba che si estende per mezzo milione di chilometri quadrati sui quali, oltre a mole tribù indios, vivono i Llaneros, i “gaucho” locali, generosi, sbruffoni, sempre allegri, che hanno ispirato tanta letteratura venezuelana. I Llaneros sono nomadi, come gli indios, e sono i soli che riescano ad avere un colloquio con costoro. A Porto Ordaz arriviamo a notte già inoltrata. Poche ore di sonno ed eccoci pronti per la seconda tappa, che da Porto Ordaz ci dovrà portare a La Clarita o, più precisamente, a un famoso “chilometro 88” oltre il quale comincia la vera traversata amazzonica, con tutti i suoi misteri, le sue incertezze, le sue poche e vaghe notizie. Vanni Belli si “esibisce” in alcune fotografie alla periferia di Porto Ordaz, dove si possono ammirare le magnifiche rapide formate dal Rio Caroni. Porto Ordaz. Il programma della giornata prevede 456,700 chilometri di strada, praticamente tutti in zone disabitate o punteggiate di piccoli villaggi. Di questi 366,600 sono asfaltati e 90,100 su terra battuta. Li percorriamo in dieci ore e 58 minuti (5 ore e 41 minuti di guida effettiva). La velocità media è di 86,441 chilometri all'ora: 96,473 km/ora sull'asfalto e 60,741 km/ora sulla terra battuta. La temperatura media della giornata supera i 38 gradi con una umidità del 50 per cento. Nascono frattanto i primi problemi a causa della benzina, il cui numero di ottani non supera quota 65: i motori delle due Ritmo 65 iniziano a battere in testa per il fenomeno della preaccensione. Cominciano anche le nostre preoccupazioni, per nulla mitigate dal fatto che la benzina costi qualcosa come 40 lire al litro. Sino a El Dorado la strada non pone alcun problema. È asfaltata, molto tortuosa, a schiena d'asino, in alcuni punti estremamente stretta, ma il tempo si mantiene favorevole, quindi, fiduciosi delle qualità di stradista delle due Ritmo, spingiamo a fondo. Breve sosta a El Dorado: quattro casupole che non varrebbe la pena citare, se non avessero rappresentato l'ultima prigione di Henri Charrière, meglio conosciuto col nome di “Papillon”. Nel suo famoso libro Charrière così descrive El Dorado: “E' stato, innanzitutto, la speranza dei conquistadores spagnoli, i quali, vedendo che gli indios che provenivano da questa regione erano carichi d'oro, credettero fermamente che ci fosse una montagna d'oro, o almeno metà terra e metà oro. Ma El Dorado è prima di tutto un villaggio sulla riva di un fiume pieno di caribes, piranha, pesci carnivori che in pochi minuti divorano un uomo o un animale, di pesci elettrici, i tembladores, che girano attorno alla preda, uomo o animale che sia, la folgorano in pochi istanti e in seguito la mangiano, mentre va in decomposizione. In mezzo al fiume c'è un'isola e su questa un vero e proprio campo di concentramento. È il 'bagno penale venezuelano'”. Questa la El Dorado dell'autore di “Papillon”, cioè farfalla, un soprannome affibbiatogli in gioventù negli ambienti della malavita: la stessa farfalla tatuata che campeggia sul suo torace, tra un ritratto di donna e una testa di galeotto. A El Dorado non ci sono più i forzati, il penitenziario non esiste più. La gente ricorda poco o nulla, ma il Paese conserva il volto dei luogo abbandonati da Dio e dagli uomini. Per le strade (strade per modo di dire) quasi nessuno: i pochi che incontriamo ci guardano spaventati. Non ci resta quindi che abbandonare l'asfalto e iniziare la nostra avventura. Attraversiamo il Rio Cuyuni e troviamo ad attenderci i “numeri uno” della Fiat venezuelana: Carlo Lanfossi e Cesare Chirighin. Ponte sul Rio Cuyuni. Sono arrivati con un bireattore executive per augurarci buon viaggio. La loro presenza ha il sapore di un rimorso: quello di averci lasciato partire da Caracas con le due piccole auto verso un'avventura secondo loro irrealizzabile. Ci guardano con preoccupazione; hanno sentito parlare delle difficoltà del percorso, ma loro stessi non le hanno mai provate personalmente. “In bocca al lupo” mi dice Lanfossi “e appena possibile telefoni. Stia attento perché la strada è insidiosissima. Anzi, la non-strada”. Partiamo verso La Clarita dove giungiamo a sera inoltrata. La Clarita non è una città, non è un paese, non è un villaggio. Tre casupole e una baracca adibita a ristorante, albergo e supermercato. Qui fanno capo gli indios locali, i cercatori d'oro e di pietre preziose e i cacciatori di animali da pelliccia. Uomini che si accontentano di dormire sulla nuda terra, passando gran parte della loro vita a piedi scalzi nelle acque dei fiumi a rimestare con le mani terra e melma, per trovare pochi grammi d'oro o qualche scheggia di diamante che rappresentano un miraggio della sognata ricchezza e che si rivelano invece soltanto un mezzo per sfamarli in qualche modo. Passiamo la notte a La Clarita in piccole stanze, senza luce, senza aria. Mancano persino le finestre. Il letto è costituito da un tavolaccio e dal nostro sacco a pelo. Poche ore di riposo ed è l'alba. Ci sveglia il canto del gallo. Siamo al “chilometro 88”. Ha inizio la grande avventura. Fine seconda parte
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I raid di Gente Motori - N.9 - Fiat Ritmo "TransAmazzonica '80"
nella discussione ha aggiunto PaoloGTC in Auto Epoca
TRANSAMAZZONICA '80 Di Gianni Marin Hanno collaborato Carlo Massagrande (rilevazioni tecniche) Bruna Marin (parte turistico-illustrativa) Vanni Belli (servizi fotografici) Un'ora qualsiasi, di un giorno qualsiasi, di una settimana qualsiasi. Anche per me è l'ora del passeggio; quello che al sud si chiama “struscio” e qui, a Milano, si dice “andar per compere”. È il solito cabotaggio del sabato: i dischi, i dolci della domenica, la ricerca di qualche buon film. La zona è la stessa: corso Venezia, piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele, via Montenapoleone. E tutte le viuzze interne della “Milano-bene”, fra cui via della Spiga che sfocia in corso Venezia. All'angolo una importante agenzia di viaggi. In una delle vetrine uno stupendo manifesto pubblicitario. È un invito a visitare il Brasile attraverso una fotografia aerea d'effetto. Una specie di serpente di terra rossa che si snoda senza testa e senza coda all'infinito, in una verde distesa di foresta. Sembra quasi che un colpo di spada abbia squarciato, mettendole a nudo, le viscere rosseggianti della natura. I miei viaggi nascono tutti da stati emotivi ed era quindi logico che una fotografia del genere scatenasse la mia fantasia. Con i raid di Gente Motori abbiamo percorso un po' tutte le strade d'America, ma erano state avventure abbastanza semplici, faticose fin che si vuole, ma tutte condotte a termine in ambienti sufficientemente progrediti e civilizzati. Ma l'Amazzonia, proprio a questa regione del Brasile si riferiva la fotografia che ho descritto più sopra, era una cosa nuova, già psicologicamente carica di avventure, piena di leggende e di fantasie, “vista” solo sui libri dei grandi viaggi, ancora misteriosa benché l'uomo sia ormai giunto quasi alla boa del ventesimo secolo. Dovevo andarci con la mia solita équipe; pochissime persone affiatate, addestrate, pronte a sacrificarsi in ore e ore estenuanti di guida, pronte a reprimere gli inevitabili momenti di ira e di scoramento, quando cala la sera e si fa sentire il sonno ma non ci si può fermare, quando lo stomaco reclama il cibo ma bisogna continuare, quando si ha sete ma l'acqua pulita è finita e non ci si può fidare di quella che l'ambiente offre. L'Amazzonia si, ma quale strada scegliere? Con quali automobili andarci? In quale periodo? Cerco notizie sulla Transamazzonica, la “BR 406”, la prima grande arteria i cui lavori hanno avuto inizio nel settembre del 1970. Essa “avrebbe” dovuto collegare l'oceano Atlantico al Pacifico, unire Joao Pessoa e Recife a Rio Branco e Cruzeiro do Sul (poste ai confini con il Perù e la Bolivia) per poi proseguire in territorio peruviano. Cinquemilacinquecento chilometri complessivamente, di cui 3300 nella foresta amazzonica. Un'opera che ha richiesto la costruzione di oltre duecento ponti e che è costata qualche cosa come trecento miliardi di lire italiane. Della Transamazzonica in Europa si è favoleggiato. Si è parlato come di un'impresa titanica, di zone nuove aperte allo sfruttamento minerario, agricolo e industriale, di popolazioni tolte da un millenario abbandono. Ebbene: di quei 3300 chilometri di lavoro sovrumano, dove il lavoro nel periodo secco (da ottobre a febbraio) avveniva senza soste, ventiquattro ore su ventiquattro, dove in più punti è stato necessario stendere chilometri e chilometri di fogli in plastica per proteggere il fondo dall'erosione delle piogge, dove gli uomini addetti ai lavori hanno dovuto affrontare (e molti ci hanno rimesso la pelle) il pericolo delle malattie tropicali, il tormento degli insetti, gli attacchi degli animali feroci, l'ostilità degli “indios”: ebbene dicevo, di questi 3300 chilometri ormai terminati oggi ne “sopravvivono” soltanto duecento. È stata la grande rivincita della natura. L'uomo l'ha violentata, l'ha mutilata, ha tentato di cambiarne il ciclo e il corso, ma la natura è più forte dell'uomo: ha fortificato le radici dei grandi alberi che sprofondate nell'humus sono riemerse sul nastro stradale sconvolgendolo mentre i rami, le liane, le “barbe” della foresta tropicale invadevano tutto, cancellavano, riconquistavano quel posto che dal momento della creazione era stato loro. Il sogno del tecnico tedesco Friedrich Hopke (era alle dipendenze del Dipartimento stradale del Parà) che aveva vagheggiato una grande via di comunicazione che unisse gli estremi navigabili dei grandi affluenti di destra al Rio delle Amazzoni è così miseramente naufragato, assieme a quello di unire anche il Nord est arido e sovraffollato all'Amazzonia, ricca di acqua e scarsamente popolata. Scartata la Transamazzonica classica, dovevo cercare un'altra strada nell'ambito di quel programma, in parte molto utopistico, varato dal SUDAM, che prevedeva di costruire complessivamente oltre dodicimila chilometri di strada che avrebbero dovuto tagliare l'Amazzonia in senso longitudinale e verticale. Una di queste, realizzata da reparti dell'esercito “dovrebbe” congiungere Manaus a Santa Elena de Uaren, posto di confine fra Brasile e Venezuela. Ho scritto “dovrebbe”, poi vi spiegherò perché Si tratta insomma di una Transamazzonica nord-sud e viceversa che prosegue poi in territorio venezuelano. Il tratto venezuelano è stato tracciato dal “battaglione di ingegneria” comandato dal generale Joan Kavanang Ilaramendi di origine inglese nei lontani anni '58-'59. Lavori più seri sono stati poi compiuti nel 1972 dall'allora comandante del “battaglione di ingegneria”, tenente colonnello Cajigal, attualmente promosso generale. Ed ecco perché ho scritto “dovrebbe”. In effetti, e scrivendo questo anticipo un po' le notizie successive, ma ciò è necessario per meglio inquadrare il raid di Gente Motori, il tratto brasiliano non esiste come strada vera e propria come la si intende all'europea, mentre quello venezuelano da El Dorado (ultima prigione di Henri Charrière, l'autore di “Papillon”) è un tratturo, interrotto in più punti, quasi cancellato dalle torrenziali acque equatoriali, franato in più punti, regno sovrano di animali, foreste ed eventi naturali. Ma chi vi racconta questa storia sapeva ben poco di tutto questo. In testa avevo soltanto la foto dell'agenzia turistica vista a Milano e il richiamo di un mondo sconosciuto, tutto da scoprire. Forse una reazione naturale al mondo dei motori al quale quotidianamente mi dedico. Ebbene, vista l'impossibilità di percorrere la Transamazzonica in senso longitudinale, ho deciso di puntare su quella nord-sud prendendo come “capolinea” di partenza Caracas capitale del Venezuela, e come stazione di arrivo in Brasile il capoluogo dell'Amazzonia: Manaus. Rimaneva il problema di scegliere le automobili. Caracas Ho preso in esame i modelli delle varie Case e, senza sciovinismo da parte mia e del giornale che dirigo, ho deciso di puntare ancora una volta sulla Fiat Ritmo nella versione “65” con motore di 1300 centimetri cubici di cilindrata, lo stesso modello cioè che avevo utilizzato per il raid “Montreal-Miami” degli inizi del 1979. E ciò avveniva con uno scopo ben preciso. Come i lettori ricorderanno, allora vennero superate condizioni meteorologiche infernali che avevano raggiunto il loro culmine nei trentacinque gradi sotto lo zero e nella bufera di neve (da vent'anni non se ne verificava una di simile) da Washington in giù, nel Nord Carolina, nel Sud Carolina, nella Georgia. Andando in un Paese come l'Amazzonia avevamo la possibilità di sfruttare condizioni ambientali completamente opposte, temperature che già sulla carta si annunciavano di ben quaranta-quarantacinque gradi sopra lo zero, la possibilità di incontrare i famosi acquazzoni violentissimi dell'Equatore e a cui si poteva aggiungere, in contrapposizione alle veloci autostrade canadesi, il tormento rappresentato da strade in terra battuta (e che credevo fossero soltanto tali), quindi tanta polvere e molti sassi. Da tutto questo poteva quindi nascere un confronto estremamente interessante e un giudizio su di una vettura che, nata con i galloni dell''Auto anni '80', ha avuto un avvio difficile, almeno sul mercato italiano. Ho scelto dalla produzione normale due Fiat Ritmo nell'ultima versione, cioè quelle già dotate di servofreno e di ventilatore centrifugo che assicura un maggior silenzio e una maggiore portata d'aria. Vi ho fatto apportare qualche leggera modifica; piccole cose, mentre tante altre che sarebbero state necessarie date le condizioni delle strade sono rimaste soltanto nel regno dei sogni e dei desideri. Ho fatto sostituire le molle anteriori delle sospensioni, facendo montare quelle delle Ritmo 75 con cambio automatico, vettura che essendo più pesante ha richiesto questa modifica. Le due “Ritmo Amazzonia” (così le ho battezzate) erano più alte di circa due centimetri. È stato anche aumentato lo spessore del tampone in gomma degli ammortizzatori (ad anello interno) in modo da guadagnare in altezza circa 25 millimetri. Due sole le protezioni vere e proprie: una anteriore, una specie di slitta in alluminio dello spessore di cinque millimetri che difendeva motore, cambio e parte delle sospensioni (era stata ancorata alla traversa anteriore e alla scocca); una posteriore in lamiera d'acciaio con interposto materiale isolante del tipo Septun. Per le gomme avevamo ancora una volta optato per i Pirelli P3 tubeless ma con camera d'aria aggiunta per evitare l'afflosciamento del pneumatico in caso di buche e quindi urti e ammaccature del cerchione. Misura 165/70 SR 13, cioè più larghi dei 145 SR 13. Il diametro dei due tipi di pneumatici è uguale, ma essendo più larga la superficie d'appoggio, il peso veniva meglio ripartito e si guadagnava naturalmente in tenuta di strada. In conclusione posso dire che per le auto si è trattato più di una messa a punto che di una preparazione tipo “Sahara” o fuoristrada, mentre per le gomme ci si è avvalsi ancora una volta di un modello qualsiasi, montato normalmente in serie, mentre, giudicando con il senno di poi, molto più opportune sarebbero state le gomme del tipo tassellato. La Publimais di Torino ha provveduto come al solito ad “addobbare” con le nostre scritte le due Ritmo 65, che se ne sono partite via mare, per Caracas, punto di partenza della “Transamazzonica '80”, il nuovo raid di Gente Motori. Caracas Venti e più giorni di viaggio e poi lo sbarco a Caracas con il quasi contemporaneo arrivo dei quattro avventurosi, entusiasti, ben preparati fisicamente e psichicamente ma ingenui, perché nessuno di essi conosceva esattamente lo stato delle strade. Una situazione che si sarebbe rinnovata continuamente, perché chiedere informazioni agli abitanti sulle condizioni delle strade è sempre stato perfettamente inutile. Le risposte erano tutte fantasiose, approssimative e il più delle volte, anche per gli abitanti delle zone attraversate, soltanto “per sentito dire”. A Caracas “consiglio di guerra”. Dobbiamo stabilire le tappe, tenendo presenti i pochi centri abitati che dovremo attraversare e le condizioni ambientali con autentici pericoli per la nostra incolumità. Come, ad esempio, l'attraversamento della riserva degli indios Waimiri Abonari, 325 chilometri prima di Manaus, per una lunghezza di 120 chilometri, tuttora selvaggi e il cui ingresso e uscita sono piantonati da reparti dell'esercito che intervengono nel caso in cui questi rischiosi 120 chilometri non vengano percorsi in un tempo ragionevole. Normalmente le auto vengono fatte marciare in colonna e viaggiano a finestrini completamente chiusi. Gli indios Waimiri Abonari hanno già “fatto fuori” non meno di trecento bianchi che si erano azzardati ad attraversare la zona. L'ultimo, mi raccontavano, in un modo piuttosto originale: costringendolo a mangiare una banana dietro l'altra. È morto per ingozzamento e asfissia. Cinque le tappe presumibili: da Caracas a Porto Ordaz, da Porto Ordaz a La Clarita (Les Clarines), da La Clarita (Les Clarines) a Santa Elena de Uaren, punto di confine fra Venezuela e Brasile, da Santa Elena de Uaren a Boa Vista e infine da Boa Vista a Manaus, una tappa lunghissima quest'ultima di oltre ottocento chilometri che ci costringerà a rimanere al volante per quindici ore e cinquantatré minuti primi, su di un tracciato impossibile anche alle capre ma su cui, a parte gli indios già citati, non esiste praticamente alcun villaggio con le caratteristiche per essere definito tale che ci consentisse una sosta con un minimo margine di sicurezza. Caracas: dalla capitale del Venezuela ha avuto inizio l'avventura amazzonica dei nostri quattro inviati sorretti dalla forza più grande, quella dell'incoscienza. È la metropoli che ha visto muovere i nostri primi passi con le due Ritmo 65 che avevamo trovato in ottimo stato dopo circa un mese di traversata atlantica. C'era un solo neo: erano state rubate le radio per le comunicazioni dirette che montiamo sempre per evitare di perderci. Le abbiamo ricomperate: poco male. Tutto il resto è a posto e Carlo Massagrande inizia il suo doppio lavoro: pilota dell'auto color rosso dall'inizio alla fine, nonché rilevatore di dati, di situazioni, di appunti tecnici. Con una meticolosità impressionante. I suoi primi rilievi sono: i pieni di carburante, la pressione delle gomme, il funzionamento delle radio, la temperatura esterna, il grado di umidità atmosferico, ecc. ecc. Proseguirà poi con lo stato delle strade, i tempi di percorrenza, le ore di sosta per foto e altro, le medie, le distanze da... e via dicendo. Con lui viaggerà Vanni Belli, un'habitué paziente e preciso di queste nostre avventure; con me mia moglie, alla quale è affidata la contabilità, la dispensa di bordo, le annotazioni di viaggio su cui poi nasceranno le didascalie delle fotografie e queste mie note. Caracas Dedichiamo due giorni alla parte fotografica di Caracas, capitale di questo immenso paese che compre una superficie di 912.000 chilometri quadrati ma sul quale abitano soltanto dieci milioni e mezzo di persone. Caracas, con i suoi due milioni di abitanti è una città allucinante. Nata dalle rovine di due terremoti, quello del 1755 e quello del 1812, Caracas è diventata una megalopoli. È stato costruito un aeroporto ai bordi del Mar dei Caraibi, che però è stato quasi subito distrutto per lasciar posto ad un altro, fantascientifico. Sono stati abbattuti dei grattacieli per costruirne altri ancora più alti, è stato realizzato nel cuore della città il Centro Bolivar, due grattacieli gemelli uniti da un vastissimo fabbricato adibito a uffici sotto il quale scorre l'Avenida Bolivar. Il centro storico, quello del passeggio, delle boutique, dei negozi denominato Saban Grande, non esiste quasi più: è stato smantellato per lasciar posto ad altre strade e ad altri grattacieli. Le strade sopraelevate che si intersecano, si avviluppano l'una con l'altra non si contano. Dall'Hotel Tamanaco, dove alloggiavamo nei giorni di sosta, giunge un continuo rumore di automobili. Sono migliaia, decine di migliaia di vetture continuamente in movimento a qualsiasi ora del giorno e della notte. D'altronde il problema del prezzo della benzina non esiste: la normale dal bassissimo numero di ottani (60/65) costa 30,26 lire al litro; quella Super 69,30 lire al litro. Il gasolio ha un prezzo medio di 42,75 lire al litro. È la civiltà del petrolio in tutta la sua esplosione, dato che non bisogna dimenticare che la massima ricchezza venezuelana è costituita proprio dal petrolio con 116.820.000 tonnellate estratte (ultimo dato ufficiale) nel 1977, che pongono il Venezuela al quinto posto fra i grandi Paesi petroliferi. Esso viene estratto dai bacini di Maracaibo, Falcòn, Barinas e Maturìn. Ma di fronte a questa esplosione di ricchezza non bisogna rimanere abbagliati. Bisogna vedere anche l'altra faccia di questa città. Caracas - Ai confini della civiltà Quella delle “bidonville”, le stesse che si trovano a Rio de Janeiro e in altri Paesi sudamericani dove vengono chiamate “favelas” e che qui in Venezuela sono battezzate “los barrios”. Quello di Sabana Grande è immenso. Se lo si osserva dal basso sembra un fitto grappolo di case lassù sulla collina: di giorno mostra tanti buchi neri al posto delle finestre, di notte è un luccichio di tanti lumini traballanti. Perché a Sabana Grande come negli altri “barrios” la luce elettrica non esiste, come non esistono l'acqua e i servizi igienici. È questo contrasto tra i grattacieli di Caracas moderna e la povertà dei “barrios” che lascia tutti perplessi. Ma il viaggio sta per cominciare. È ora di iniziare a raccontarvi la nostra avventura e quella delle due Ritmo 65. Fine prima parte- 11 risposte
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Però però... (considerazione profonda della notte del primo dell'anno) ... lo sforzo si poteva fare. Anche perchè l'intenzione era quella di proporre una berlina di classe nel settore delle medie. Lo specchio destro era uno di quegli accessori che si potevano offrire di serie, anzichè lasciarli a richiesta come sulla sorella popolare Tempra che sarebbe arrivata in seguito. Ho ritrovato la cifra di 54.000 Lire anche nell'elenco accessori/optional pubblicato da 4R nella prova su strada (fascicolo di Maggio 1989). Il test riguarda l'allora top di gamma, la 2.0 i.e., ma l'elenco mostra tutte le versioni. Dalla 1.6 alla 2.0, Tds compresa. Lo specchio destro è a richiesta su tutte, e per la 2.0 parliamo di un prezzo di 25.113.000 Lire. So che la sto facendo un po' semplice ad esprimere questo pensiero... ma mi chiedo se su una vettura con prezzi che andavano da 20 a 25 milioni non fosse possibile inserirlo negli accessori di serie questo specchio. Mica intendo gratis eh... il ragionamento è: anche facendolo pagare al cliente tanto come l'optional, caricando cioè 54.000 Lire sul prezzo finale di tutti i modelli.... qualcuno avrebbe per caso rinunciato leggendo (per la 2.0 i.e.) un prezzo di 25.167.000 anzichè 25.113.000? "Ehh.. no, rinuncio, troppo cara a 25 e 160... fosse stata sui 25 e 110...." Ma dai non ci avrebbe fatto caso nessuno. Sarà stata la gran voglia di mettersi sul piano di Mercedes, che del 190 ti faceva pagare anche l'ombra sull'asfalto. Lo dico anche perchè sullo stesso 4R da cui ho estrapolato questa manciata di info c'è un confronto fra tre medie del segmento C. Una "C" vera e propria, e due derivati a 4 porte. La Renault 19 TSE, la belliFFima Ford Orion 1.4 Ghia e la efficientiFFima Opel Kadett 1.3 GL 4 porte (col suo milletrè che era un gioiellino vivace e che mangiava come un passerotto.... le Opel con la "O"). Tutte avevano due specchi di serie. La Orion addirittura metteva sul piatto la regolazione elettrica del destro, compresa nel prezzo. La Renault costava 16.899.000 Lire. La Ford 16.154.000 Lire. La Opel 17.018.000 Lire. Va da sè che era un dettaglio, ma con in giro tre auto come quelle qui sopra (prese giusto come esempio, ce ne saranno state altre), era più pietoso l'effetto di una Dedra con uno specchio solo e fastidiosa per il cliente la scoperta di doverlo pagare a parte, che rischioso l'aumento a tavolino di 50 mila lire sui prezzi di listino. Poi probabilmente non ci avrà mai fatto caso nessuno... in fondo son profondi ragionamenti della notte del primo dell'anno p.s. totalmente OT, ma non riesco a star zitto Oh ma la Ford a quei tempi, con gli assetti.... eh? Stabilità: Kadett 4 stelle, 19 4 stelle, Orion 2 stelle "Problematica. Rilasciando in curva, le variazioni di assetto provocano forti spinte su retrotreno che possono innescare fenomeni di perdita di aderenza poco prevedibili. Reazioni evidenti e impegnative in condizioni di emergenza." Se non sbaglio anche Fiesta, Sierra e Scorpio non erano dei gioielli. Come.... cioè, non riesco a capire... ma le altre auto non le provavano in Ford? Mah... Vabbè, chiudo OT immediatamente e torno alle Dedra in prova. Eh sì, perchè abbiamo "presentato" la versione standard, ma di roba ne girò ancora in seguito, o sbaglio? Vediamo infatti qui una Turbo (o Integrale, chi può dirlo?) in configurazione "zozzona". (con uno specchio solo )
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Ancora un paio da Auto Oggi. La prima immagine faceva coppia con quella di un'interno della Uno restyling, in un piccolo servizio intitolato (più o meno... vado a memoria) "Abbiamo scoperto i posti guida di due importanti novità italiane". La seconda invece... beh ormai era ora di lasciarla andare, quindi la parcheggiavano anche in posti in cui poteva essere vista da chiunque. Bisogna ricordare però che queste foto del posteriore facevano ancora un certo effetto in quel periodo. Il Gruppo infatti aveva presentato ufficialmente la Dedra (e lo stesso fece poi per la Tempra) con UNA sola fotografia, di tre quarti anteriore. Il posteriore non si vedeva. Ovviamente fu cosa di breve durata, perchè molto presto l'intero "book" della Dedra fu su tutte le riviste, ma ci fu un lasso di tempo in cui chi non aveva seguito le anteprime si chiedeva "si ma dietro??" p.s. tre fotine riguardo il rapido cambio di livrea permesso dalla vernice... anti-radar Siamo su Tempra, quindi OT, è solo per fare un esempio. La Dedra ormai ha finito di nascondersi. Con queste pagine che mostrano una vettura di produzione (o pre-produzione) durante un test, Quattroruote (aprile 1989) pone la parola fine a quasi tre anni di caccia. Il mese successivo la Dedra sarà protagonista in copertina e oggetto di prova su strada.
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Passa qualche settimana, e durante l'ultimo inverno di collaudi (1988-1989) la Dedra è nuovamente preda dei fotografi amatoriali/lettori di Auto Oggi. Un altro milione va via per la "Caccia al prototipo". Ormai rimane solo un po' di nastro, che fa più danni che altro. Come scriveva un giornalista di 4R parlando degli ultimi prototipi 164, "vien da chiedersi il perchè di queste strisce di nastro colorato, che anzichè rendere anonimo il prototipo attirano gli sguardi di tutti". Beh... ovviamente lo scopo era quello di farsi notare, a quel punto. E noi notiamo. Notiamo che anche qui c'è qualcosa di losco. Sulla Dedra bianca c'è il tester al volante, in entrambe le foto. Sull'altra no. Sarà mica fuori a far le foto? (curioso anche il fatto che sulla scura si vedano i numeri della targa prova, mentre sulla bianca siano coperti o cancellati in... post-produzione) Oppure il fotografo è una terza persona? Nella foto qui sopra sembra di vedere l'ombra di una testa sulla fiancata... comunque sia, non credo ci fosse alcunché di avventuroso in questa "Caccia". ("dai, fatemi fare due foto, poi smezziamo" ) Qui ancora una bianca con un po' di nastro La precisione con cui erano tirate quelle "decorazioni" mi aveva fatto pensare che si trattasse della stessa bianca, ma poi mi sono accorto che quella qui sopra ha i poggiatesta posteriori. Precisi al reparto camuffatura, eh?
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Buon Anno a tutti! Il 2025 è appena iniziato ed io sto per terminare la saga delle Dedra con le pinne (ho pensato di sedermi qui per godere di un'attimo di pace fra la cena dell'ultimo ed il pranzo del primo... tutto bello ma anche tanto caos, e niente è più rilassante della mia poltroncina davanti al mio schermino ) Queste tre fotacce sono le ultime in cui la Dedra compare con una pesante camuffatura, e in realta furono pubblicate quando la vettura era già stata presentata. Facevano infatti parte dell'articolo riguardante la famosa diesel aspirata, con tanto di documento di omologazione. Foto spia non utilizzate per servizi precedenti, finirono in quella pagina per aggiungere qualcosa da vedere... anche se ovviamente non v'era prova alcuna che quel prototipo fosse un diesel aspirato. Poi la Dedra si spoglia, e GM la sorprende fuori dai cancelli con un aspetto decisamente inconsueto per i prototipi Fiat/Lancia di quegli anni. Forse uno dei primi in casi in cui i prototipi torinesi si fecero vedere in giro in all-black opaco, ricoperti di quella vernice che (secondo quanto scriveva Quattroruote dopo aver "pizzicato" la stessa Tipo 3 Fiat prima tutta nera, bianca, nell'arco di poche ore) si spruzzava alla veloce e altrettanto velocemente si levava con l'idropulitrice. Ormai c'è ben poco da immaginare: solo la parte mobile della fanaleria posteriore. Anche qui un bel tergilunotto... che onestamente non era affatto piacevole da vedere (secondo me). Quante ne avete viste voi col tergi posteriore? Io una.
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Purtroppo no. Credo che siano stati gli unici a parlarne. Magari un pomeriggio faccio un disegnino... anche se dubito che la mia mano renderebbe l'idea come lo possono fare altri molto più bravi qui dentro 🙂 Comunque in onore di tutti questi ricordi io ho messo nel box tutta la tecnologia tedesca e finisco l'anno con la mia scimmietta. (Due Tipici scorci)
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Un altro prototipo viene in seguito "pizzicato" a Genova, e l'autore di queste immagini è uno dei vincitori del milione di lire messo in palio da Auto Oggi per la "Caccia al prototipo". Le frecce non riusciamo ancora a metterle a posto ma ormai il nastro grigio è l'unico velo a nascondere il frontale. Poi ne abbiamo una tutta di bianco vestita che esce dai soliti cancelli insieme al proto di una Tipo 16v. Altre due immagini in HD da Gente Motori, che non dicono nulla di nuovo. La seconda però è molto bella, oserei dire romantica con quel bel clima da caccia al prototipo...
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Sul numero del 21 luglio del 1988 Auto Oggi propone un altro piccolo, grande scoop. (non sono così nerd da ricordarmi le date a memoria... l'ho visto ieri mentre sistemavo due cose ) La copertina è dedicata ad una piccola fuoristrada il cui nome gira per strada ancora oggi, la Vitara, ma in basso a destra troviamo la prima immagine di buona qualità della plancia. Il titolo: "Radica nella super Prisma". La foto è stata scattata ad un prototipo in pausa... situazione curiosa perchè non si riesce a capire se il tester non si sia reso conto di nulla (nella foto del posteriore lo vediamo seduto, in quella del frontale sta parlando con una persona che forse era lì per distrarlo) oppure sia uno di quei finti scoop concordati con le Case per fare un po' di rumore Scoop che comunque mi è rimasto impresso per via delle foto prese da distanza così ravvicinata, che permettevano di vedere bene tante cose. Altro scoop, forse il primo riguardo questo dettaglio, il tergilunotto. Manca la calandra, ma credo che i fari siano tutti definitivi. Vettura a pieno carico
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'giorno fa freddo stamattina, quassù in mezzo ai ghiacci. Vado ad accendere il proto che sennò.... Questa mostra qualcosina della fanaleria...
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Nooo, li ha buttati? Non erano buoni?
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Ti dico la verità.... a me non è mai andata giù questa. Con la 456 originale negli occhi, trovo quella "piallata" data al posteriore troppo evidente. Non dico che avrebbe dovuto avere lo stesso sederone della coupè... ma magari una via di mezzo, un po' più di nerbo.
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I miei due cents, dopo essere rientrato dalla pausa e dopo averla lasciata che era ancora camuffata la ritrovo già sulla pedana girevole di un salone (ma poi torno ai camuffi, non penserete mica di passarla liscia ) Dedra per me rimane il miglior frutto del primo round di Tipo 2-3, insieme alla Tipo stessa (sì, ce la metto perchè sarà stata rovinata da una costruzione che a volte aveva un che di provvisorio ma per me era riuscita benissimo), concordando comunque con chi sostiene che 155 alla fine non era tutto 'sto disastro, visti i vincoli anche più pesanti data la comunione della soluzione "porte avvolgenti" che la avvicinava moltopiù della Lancia alla Tempra. Dedra non era perfetta nelle proporzioni, ma era molto curata. Aveva le "sue" portiere, dei lamierati totalmente specifici, così come l'Alfa... però quest'ultima con il bagagliaio di un'altezza simile a quella della Tempra, secondo me mostrava maggiormente la parentela. Un giochetto che fatto diverse volte nel traffico, quando avevo davanti una 155: cancellavo con la mente la parte di fanaleria montata sul portello bagagli e sostituivo quella fissa coi quadrotti rossi della Tempra... vedevo una Tempra. Con la Dedra questo non accadeva. Il fatto di avere un bagagliaio più basso però, creava secondo me un altro problema: quello delle proporzioni. Dovendo adattarsi al carry over e al passo di una due volumi nata "scatolona" dovendo trasformarsi in una tre volumi lunga solo 434 (cioè, parliamo di soli 5 cm in più rispetto alla mia ex-Astra GTC... se ne guardo una foto di profilo faccio molta fatica ad immaginarci una tre volumi lì) e alta 143, con un giro porte bello "tondo", finiva con l'avere un abitacolo piuttosto gonfio, che doveva chiudere in maniera abbastanza decisa, perchè doveva restare lo spazio per un terzo volume che si potesse definire tale. L'altezza non si poteva toccare; la lunghezza, l'avessero incrementata sarebbero sorti problemi ancora maggior col passo, e poi si sarebbero avvicinati alla Thema. Un esempio veloce, per spiergarmi: la Dedra venne da più parti indicata come il prodotto di un'idea, quella di sfidare il 190. Anche il 190 rientra nella categoria di quelle tre volumi che ai tempi eran già delle belle macchinozze, ma che quando le guardiamo oggi sembrano piccoliiine... ma il Mercedes non soffre di questi problemi di proporzioni. E tte credo! Ha un passo di 266 (8 cm in più), una lunghezza di 442 (8 cm in più... quindi quel tot in più che ha la vettura da targa a targa è lo stesso che c'è in più da ruota a ruota rispetto alla Lancia) e soprattutto il 190 è alto 5 cm in meno (138). E cambia, ragazzi. Ovviamente cambia anche perchè il 190 ha la carrozzeria disegnata su un'architettura TP. La Dedra perfetta, secondo me? Così com'era per quanto riguarda stile e dettagli, sulle misure e telaio del 190. Non si poteva. Inoltre, saremmo stati contenti di una Lancia con l'abitabilità del 190? Mmh. Detto ciò, per me resta molto carina per il frontale, per la coda, la fanaleria posteriore, le porte molto eleganti e tanti dettagli come i profili a fianco del parabrezza (ispirati proprio alle Mercedes) e per l'interno, che al di là di modifiche varie resta sicuramente quello più bello di tutto il progettone, almeno per me. Ora torno ai miei camuffi Nel 1988 GM torna a ribadire il tutto con un articolo immenso, scritto ovviamente da Gianni (allegato al numero in edicola c'era il buono per 4 tazzine di caffè espresso, per restare svegli) e corredato da degli ORRIBILI disegni (credo del "solito" Milanesi) che mi son sempre rifiutato di dare in pasto allo scanner. Le foto? Puah! Due francobolli, oltretutto stampati con la tipica qualità fotografica di GM, che ebbe al riguardo dei problemi di lunghissima durata... mi chiedo ancora oggi perchè mai non sia venuto in mente a nessuno di intervenire. Poi ne abbiamo una che esce dai cancelli con le ruote di una Delta. E poi... con questo scatto realizzato sbirciando attraverso una delle "porte" di Mirafiori, scopriamo le dimensioni e l'elevato angolo di apertura del portello bagagli. Adesso vado a fare i toast.
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Un altro scatto della "4 fari uguali" (realizzato nello stesso momento) Un'altra, molto simile, che qui vediamo in corsa. Il "navigatore" si è appena reso conto che... ci siamo svegliati presto anche noi. La plancia c'è già, i poggiatesta ancora no, così come non ci sono sulla gran parte dei proto visti fino ad ora. Ma perchè questi poveri collaudatori venivano mandati in giro senza? Noi li avevamo ormai dappertutto. Se i sedili fossero già stati quelli definitivi, beh non credo che il design dei poggiatesta fosse il GRAN SEGRETO da proteggere. Se fossero stati provvisori.... beh si potevano anche montare completi. Le foto di altri due esemplari, pubblicate da Gente Motori. A quei tempi servizi più completi (in stile Marin ) avevano già detto tutto sulla nuova Lancia. Qui le foto venivano pubblicate insieme a brevi paragrafi che si limitavano a ricordare che i collaudi della nuova Prisma andavano avanti. Sono arrivati i poggiatesta, almeno su uno dei due proto. Piuttosto curioso l'effetto che fa questo paraurti completamente nero. E' praticamente "lui", ma senza la parte in tinta sembra un altro. Lo so che mi sto perdendo in dettagli inutili ma noto anche che il proto della prima di queste due foto ha sul parabrezza il portabollo/assicurazione, il secondo no. In primis avevo pensato l'avesse sul lunotto, ma poi ho capito che quello che si vede attraverso il parabrezza è della 127 parcheggiata dietro Niente portabollo ma un bel numero 4 sul parabrezza. Il primo proto sembra avere la calandra, il secondo no. Poi in un bel giorno 4R sgancia una piccola bomba. In una di quelle pagine con le "brevi scoop" che stavano dopo le anteprime principali, racconta di essere riuscito a sbirciare nella zona in cui le scocche vengono scaricate per andare all'abbigliamento prototipi e ci mostra che forma avrà la fanaleria definitiva. La forma generale della coda la conoscevamo già dal 1986 ma nella vista posteriore del prototipo quasi pulito "beccato" alla Mandria (l'unica immagine del bagagliaio, pubblicata da Gente Motori) la fanaleria era in parte coperta dal nastro. Ora sappiamo che avrà una forma particolare. Altra piccola "bomba" sganciata da 4R, in un articolo corredato da uno splendido disegno di Giorgio Alisi in apertura, che ci mostra la Lancia "Tre" sul prato davanti ad un edificio in costruzione che ospita al primo piano una Thema che fa da madrina. Spero di trovare il file, mi piacerebbe condividerlo per sottolineare ancora una volta la magia insita nelle mani di Alisi. La "bomba" invece (capirai che bomba, si vede quasi niente... ma ai tempi ci facevamo andar bene anche questi scampoli) nasce dal fatto che 4R è riuscito ad affiancarsi ad un proto fermo al semaforo, e a dare una sbirciatina alla plancia.
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Svegliaaaa!!! I collaudatori si alzano presto, e noi dobbiamo fare altrettanto, altrimenti ci seminano! Iniziamo con un'altra immagine b/n della vettura vista nel post precedente. Credo fosse la stessa situazione, in cui il paparazzo ebbe un attimo per girarci attorno. Questo b/n mi piace, fa molto "mattina torinese con quella nebbiolina che chissà forse non è nebbiolina" Oltre ai classici fari posticci, notiamo un tubo di scarico provvisorio. Questo invece è il secondo scatto della vettura vista ieri davanti alla mitica edicola, il cui proprietario se le guardava tutte. Probabilmente pensò subito che se avesse scattato ed inviato delle fotograrie, Fiat avrebbe immediatamente capito di chi si trattava, dall'inquadratura, e qualcuno sarebbe uscito a dirgli qualcosa Infatti non abbiamo mai visto una foto che potesse essere stata scattata dall'edicola. Peccato per lui, sarebbe stato un carparazzo col lavoro pronto davanti agli occhi ogni giorno. In queste due immagini alcuni pezzi di nastro adesivo nero non combaciano, altri invece si. Potrebbe essere la stessa vettura. Qui invece abbiamo un prototipo caratterizzato dalla lunga striscia di nastro nero sui fianchi e da un frontale completamente anonimo, privo di calandra e dotato dei gruppi ottici della Delta HF, il che ci può dare l'idea di come sarebbe stata la Dedra con un frontale "old style" Curioso comunque il fatto che col passare del tempo il frontale anzichè passare da provvisorio a quasi definitivo stesse facendo esattamente il contrario Il numero dei prototipi costruiti è salito parecchio... sul parabrezza mi sembra di leggere un 40/40 e qualcosa. Gente Motori nello stesso servizio pubblicava anche questa... e al primo impatto poteva sembrare la stessa, vista da dietro. In realtà è un'altra vettura: questa non ha la striscia nera sul fianco. E non cellà perchè.... è un'altra "quattro fari". Questa. Che li ha tutti dello stesso diametro. Saranno di una Bmw? Ogni tanto spuntano queste frecce dalla forma che pare quella definitiva, ma di colore arancio (si vedono bene in quella davanti all'edicola postata ieri, e si vedevano anche sulla "pulita" sorpresa da 4R sullo sconnesso della Mandria). Le aveva la maquette del 1984, ma sul prototipo "0" con targhe e tutto non c'erano più. Poi spuntano nuovamente sui primi proto camuffati... ne realizzarono un po', di quelle frecce definitive di color "basic", e trovo la cosa piuttosto curiosa, dato che la vettura che questa sarebbe andata a sostituire, la Prisma, le frecce arancio non le aveva mai avute. Volevano imitare il 190?
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Thank you Max!! (qualcuno le può postare nel topic della 155, per cortesia? Il mio segretario è molto efficiente ma a volte passa un seno prosperoso davanti alla sua scrivania e lui perde il segnale)
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- gente motori
- gianni marin
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(e 1 altro in più)
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