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PaoloGTC

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  1. Eccoci con la dose quotidiana di “amarcord”, stavolta dedicata alla nascita della 90. Buona lettura! DENTRO L'ALFA 90 Intervista agli autori E' un'Alfetta un po' cambiata. No, è una vettura completamente nuova, finalmente all'altezza della migliore concorrenza straniera, che conserva l'impronta sportiva e il “carisma” Alfa. Fra queste opposte tesi è diviso il parere degli appassionati all'uscita dell'Alfa 90. Alcuni sono rimasti pienamente soddisfatti dall'”evoluzione nella continuità”: stessa meccanica, ormai affidabile, aggiornata secondo le ultime tecniche. Altri lamentano la “stasi dell'evoluzione”: stessa linea di base, mancanza di novità assolute, ricorso ad uno styling facilmente databile. Una cosa è certa, gli alfisti hanno reagito bene: l'accumulo di ordini in portafoglio dopo le prime settimane costituisce una sorpresa oltremodo positiva per i dirigenti di Arese a conferma della validità delle scelte effettuate. E' ovvio, una vettura non può piacere a tutti: l'importante è che piaccia a coloro che possono acquistarla. Quali erano le scelte di base? E qual'è stato il travaglio di progettisti e carrozzieri prima di arrivare alla soluzione finale? Lo chiediamo a Filippo Surace, direttore tecnico Alfa Romeo, e a Nuccio Bertone, lo stilista torinese autore della carrozzeria. La sigla K2 che ha contraddistinto questo modello prima della sua nascita, rivela parte del travaglio: “Kappa” è la nona lettera dell'alfabeto e indica che erano almeno nove i bozzetti-proposta presentati da Bertone alla direzione dell'Alfa; il numero 2 invece sta a significare che il bozzetto scelto ha subito un secondo rimaneggiamento prima della versione definitiva. (non so voi ma questa spiegazione mi lascia un po' perplesso. Non vedo come ci si incastri il K1 di 75, ndGTC) Dice Bertone: “E' sorprendente come l'orientamento degli uomini Alfa sia stato unanime.” E aggiunge Surace: “Anche la verifica da noi compiuta su un pubblico eterogeneo ci ha tolto ogni dubbio”. -Ing. Surace, quale era l'obbiettivo, in termini di immagine e di collocazione commerciale, che si voleva raggiungere? “Il nostro obbiettivo era quello di consolidare la posizione nel segmento 5, che è quello dell'Alfetta. Abbiamo preso pertanto ciò che c'era di buono in questo modello, apportando tutti i miglioramenti che potevano suggerire il progresso tecnologico e la tendenza del mercato, cioè aumento delle prestazioni, maggiore richiesta di finiture specie all'interno della vettura e maggiore ricchezza generale: vedi servomeccanismi, accessori di serie”. -Quanto avete investito nella realizzazione dell'Alfa 90? “Per lo sviluppo e la ricerca abbiamo speso circa una trentina di miliardi. Per l'attrezzamento tecnologico e per la produzione, invece, l'investimento ammonta a cinquecento miliardi, utilizzabili per altri modelli.” -Quanta parte di questi investimenti riguarda da vicino l'automobilista e quindi verranno verificati durante l'esercizio? “Alcuni prima, alcuni dopo, ma comunque l'utente si accorgerà di tutti i miglioramenti. Per esempio,l'affidabilità dell'impianto elettrico è stata aumentata notevolmente utilizzando terminali di nuovo tipo, i migliori sul mercato, ed effettuando controlli prima del montaggio, facendo passare su ogni filo esattamente la corrente che dovrà poi sopportare in esercizio. Lo stesso discorso vale per la protezione anticorrosiva. Poi ci sono numerosi interventi che hanno migliorato il comportamento della vettura e le prestazioni, e che soprattutto hanno eliminato alcune manchevolezze presenti sull'Alfetta”. Riassumiamo ora gli interventi più importanti. -Il parabrezza ed il lunotto sono incollati (come lo erano nell'Alfasud e nella prima Alfetta) e partecipano all'irrobustimento della scocca (alleggerita di 21 chili grazie all'impiego di acciai ad alta resistenza). -Finalmente, le zone vicine ai cristalli non correranno il pericolo della ruggine perché è stato eliminato l'inserto in acciaio inossidabile che scalfiva la vernice. -Riduzione dei punti di saldatura (circa il 20% in meno), gran parte dei quali applicati da robot. -Irrobustimento della scocca in alcuni punti critici: per esempio l'adozione del servosterzo ha richiesto l'irrigidimento della traversa anteriore in acciaio HSLA. -Il Cx è di 0,37, che moltiplicato per una sezione maestra di 1,92 m2, dà un prodotto finale di 0,71. Particolarmente diminuita la portanza anteriore: è la metà di quella dell'Alfetta. Importante a tal fine è l'adozione dello spoiler mobile che ha come vantaggio fondamentale quello di migliorare il raffreddamento del vano motore e del radiatore. Va considerato come uno spoiler che si rialza a bassa velocità per non urtare contro i marciapiedi. “Se avessimo potuto – dicono all'Alfa – lo avremmo mantenuto fisso in posizione abbassata, perché l'adozione di un diesel potente come questo ci aveva messo in condizioni critiche per quanto riguarda il raffreddamento”. -Nelle sospensioni il vero passo avanti è costituito dalla nuova posizione dei tamponi di fine corsa, ora integrati negli ammortizzatori, che consentono un miglior controllo del loro funzionamento soprattutto in curva quando la vettura è vicina al limite. -Nel cambio è stato introdotto un sincronizzatore a doppio anello sulla prima velocità, abbandonando il tipo Porsche che non consentiva un facile innesto ad ingranaggi fermi. Secondo i tecnici di Arese ora l'impuntamento si verifica soltanto quattro volte su cento. Anche la rumorosità, l'escursione e la legnosità della leva delle marce sono state migliorate con una serie d'interventi. -Finalmente è stato adottato nelle Alfa il servosterzo, di serie nelle versioni top. E' una scatola ZF del tipo ad alta pressione, messa a punto congiuntamente con l'Alfa Romeo. Non si tratta solo di un servomeccanismo per rendere facile la guida, ma di una soluzione ormai indispensabile in una vettura di classe per conferire sicurezza e anche per poter variare l'angolo di incidenza che finora doveva essere tenuto basso per non rendere troppo pesante lo sterzo. -Per quanto riguarda il motore ci sono nuovi impianti di scarico più silenziosi ed iniezione elettronica sequenziale (non fasata) sulle 2000 e 2500. I miglioramenti più importanti sono stati compiuti sul 2400 turbodiesel: oltre all'adozione dell'intercooler, di una nuova fasatura, di un turbo più veloce, di nuove candelette di avviamento e di una nuova pompa di iniezione (con comando automatico dell'anticipo in funzione della temperatura), la VM ha introdotto una nuova camera di combustione e un rapporto di compressione più elevato, che hanno consentito di eliminare quasi totalmente la fumosità a freddo. C'è perfino una centralina elettronica che spegne il motore quando, in fase di frenata o di decelerazione, si scende al di sotto dei 500 giri: l'albero di trasmissione della 90, infatti, ha due volani (uno sul motore ed uno sul cambio) che entrano in risonanza intorno ai 400 giri e potrebbero provocare rumorosità e inconvenienti ancora più gravi. La potenza è ora di 110 cv e la coppia è aumentata di quasi il 30% passando da 18,7 ad oltre 24 kgm. -La rumorosità è stata abbattuta di tre decibel nei punti più critici grazie a nuove pareti isolanti e ad un miglior studio acustico della scocca. -Passando a trattare delle protezione anticorrosiva c'è da registrare anche per l'Alfa l'introduzione di lamiere elettrozincate a freddo (su un lato solo), tecnica che sta incontrando una notevole diffusione in tutta Europa nelle vetture di classe, anche se alcuni costruttori preferiscono ricorrere alla zincatura a caldo (su due facce) per totale immersione. -Per quanto riguarda i difetti dell'Alfetta la tipica rumorosità della frizione e del cambio in folle è stata limitata ricorrendo a una maggiore rotondità di funzionamento al minimo. A questo proposito l'iniezione elettronica contribuisce notevolmente a rendere uniforme la carburazione dei cilindri. Sono invece rimaste alcune tipiche frequenze di risonanza e, curiosamente, se ne è aggiunta qualcuna che è interessante descrivere. Al di sopra dei 140 si avverte nella 90 un suono di flauto che cambia nota a seconda della velocità e del movimento dello sterzo. Il suono, molto delicato e quasi suggestivo, proviene dalle grondaie di scolo dell'acqua che essendo ora completamente intubate presentano davanti e dietro due aperture a canna d'organo: l'aria entra quindi nei due flauti e ne esce vibrando con frequenza musicale. “Credo che si tratti di una quinta giusta – dice l'ingegner Surace, dimostrando un certo orecchio – l'abbiamo notata sui primi esemplari e siamo riusciti ad eliminarla aggiungendo un beccuccio antiflauto”. Ed ora ritorniamo alle domande. -Come mai i freni della 90 hanno effetto degressivo, ovvero per mantenere costante la frenata occorre alleggerire la pressione del piede sul pedale? Diversamente la vettura frena con progressione eccessiva? “Ho avvertito anche io questo fenomeno su qualche vettura e ritengo sia dovuto al ravvivamento delle pastiglie.” -Indipendentemente da questo fenomeno ci sembra però che lo sforzo da esercitare sul pedale sia così lieve da togliere sensibilità al pilota. “Si tratta di scelte che dieci anni fa ci saremmo rifiutati di accettare, ma oggi il pubblico ci tira per la giacchetta perché vuole freni sempre più leggeri. Come tecnici siamo d'accordo sulla riduzione di alcuni sforzi, per esempio quello sulla frizione o sul volante, ma per quanto riguarda i freni non si dovrebbe andare entro certi limiti.” -Come mai la carrozzeria della 90 è caratterizzata da superfici piane, segmenti diritti e profonde scalfature, quando la tendenza moderna sembra prediligere fiancate morbide e arrotondate? “Da parte mia posso dirle che nella base c'è stato il desiderio di dare alla vettura una giusta aggressività unita a un'impronta classica. Ma questa domanda va rivolta al più diretto interessato, cioè a Bertone.” E allora sentiamo Nuccio Bertone. -Quali sono stati i canoni stilistici suggeriti dall'Alfa Romeo e quali i vincoli imposti per la carrozzeria? “L'erede dell'Alfetta non doveva perdere i contenuti di questa, ma avere qualcosa in più, salire nell'apprezzamento della clientela e raggiungere il livello di classe superiore, nell'assieme e anche nel colpo d'occhio. Quanto ai vincoli stilistici dovevo mantenere la compattezza e la sportività Alfa. Per i vincoli tecnologici, invece, non ho avuto problemi. La vettura è tutta nuova e mantiene delle vecchie Alfetta soltanto il pianale. Quindi libertà piena di fare un modello duraturo nel tempo e adatto a tutti i mercati, compreso quello americano. La scelta di disegnare una carrozzeria compatta deriva anch'essa dalla tradizione Alfa che ha sempre prodotto vetture agili e scattanti: non potevo, quindi, permettermi di seguire la moda di certi modelli europei un po' opulenti che danno si la sensazione di essere confortevoli, ma non sono da guidare con piglio sportivo. Tutto questo, però, senza perdere di vista il confort che la clientela di classe esige.” -Quindi non ha avuto alcun limite negli investimenti necessari per la produzione? “La carrozzeria è completamente diversa da quella dell'Alfetta, non c'è un solo centimetro di “pelle” intercambiabile. Basta confrontare le due vetture assieme per verificarlo. Ovviamente alcuni elementi strutturali sono rimasti gli stessi perché era inutile modificarli.” -Perché ha scelto linee diritte e geometriche quando gli altri designers sembrano privilegiare fiancate morbide ed effetti ottenuti con volumi piuttosto che con segmenti? “A mio avviso la 90 risponde già a questa tendenza di stile. C'è ancora qualche leggero spigolo, che una volta era una vera e propria piegatura nella lamiera. Oggi invece, lo si fa e poi lo si arrotonda: è un'esigenza che nasce dall'aerodinamica e che ha come contropartita il rischio di fare carrozzerie tutte uguali.” -Negli anni che vanno dal '55 al '60 le automobili erano vere e proprie sculture che non avevano bisogno di cromature, linee diritte e scalfature. Nel revival che oggi è in voga lei sembra abbia voluto differenziarsi con numerosi “tagli”, che a prima vista paiono superflui, come quello sul montante posteriore. “Questa “rottura” deriva da una necessità tecnica: l'Alfa voleva usare lamiere più sottili ad alta resistenza e richiedeva una nervatura in quella zona. Io l'ho trasformata in uno stile nuovo del montante inserendo una saldatura nascosta proprio in quel punto. Anche i profili sul baule e lungo le fiancate derivano dalla necessità tecnica di tenere tese le lamiere durante lo stampaggio per evitare grinze e stiramenti. Quindi con motivi estetici si finisce col seguire le necessità tecnologiche”. -Quando ha affrontato plancia, cruscotto, pannelli, poteva sganciarsi da queste geometrie. Invece ha preferito esaltarla, mantenendo superfici piane, linee orizzontali e verticali. “In realtà è proprio così, ma anche in questo caso dipende dai vincoli. Oggi tutto quello che c'è sotto la plancia, soprattutto quando occorre prevedere un condizionatore ed un impianto di climatizzazione veramente moderno, diventa così ingombrante che le dimensioni sono praticamente imposte. Coprire in modo armonico tutto ciò che c'è sotto è assai difficile. Basti dire che per togliere rumorosità ai canali di climatizzazione occorrono raccordi molto dolci che occupano spazio. Ci vuole quindi una certa astuzia nel lavorare sulla plancia. Noi abbiamo voluto trattare per la prima volta con un certo stile anche l'area di fronte al passeggero, per farlo sentire più importante”. -Ci è sembrata particolarmente razionale l'idea del freno a mano trasversale. Come è nata questa soluzione? “In passato abbiamo sempre “pasticciato” attorno a questo oggetto alla ricerca di una posizione più comoda. Dopo aver scartato il pedale siamo tornati alla leva tra i due sedili, scoprendo il modo di essere più pratici, più “impugnabili”, e lasciando anche lo spazio per un cassettino”. -Anche lo spoiler sollevabile è una sua idea, apparsa sulla “Navajo”.... “Si, ma su quel modello si abbassava in funzione della velocità, grazie a un motorino elettrico. L'Alfa ha studiato invece il modo di renderlo automatico in funzione della spinta dell'aria.” -Quale è stato il particolare della 90 che le ha dato più grattacapi dal punto di vista stilistico e che avrebbe voluto nascondere? “Non sono soddisfatto dell'angolo fra il montante del parabrezza e il tetto: per ragioni di “metodo” non è come avrei voluto.” Fine. (intervista apparsa su Quattroruote del novembre 1984 e realizzata da Enrico De Vita) Mi ha fatto molto piacere ritrovare questo testo, ho riscoperto alcune cose che non ricordavo, come il “flauto” sopra i 140 orari, e soprattutto il motivo di quello strano taglio che da piccolo mi sembrava totalmente senza motivo, sul montante posteriore. Certo che le riviste di una volta... queste storie si raccontavano di più, c'era più passione. Bei tempi. GTC
  2. Sono d'accordo, c'è un miglioramento. Penso che qui si noti meno la novità perchè la precedente Plus era già più simile al nuovo stile, rispetto a G5. E i fari posteriori? Saranno come G6 o sono ancora quelli della Plus precedente, come sui muletti, che erano camuffati solo davanti? Comunque, si sbilanciano sempre tanto, eh..... una volta prendevo in giro mia sorella perchè non riconosceva una G4 da una G5, e tantomeno ora riconosce una G6 da una G5... ma con questa comincerò ad avere dei problemi anche io, per strada.... Mi sta bene che han deciso che il nuovo corso sarà la semplicità... però, come design VW, se penso a tutto quel ben di dio di designer che hanno in casa oggi, e che viene usato per modelli così... bastavo io per fare dei restyling del genere.
  3. Grazie Lore... per i ringraziamenti. Devo dire di essere pienamente d'accordo con te. Ora non posso mettermi a fare grandi discorsi sull'oggi di Pomigliano, perchè come ammetto sempre, non sono ferratissimo in materia, e c'è chi ne sa moooooolto di più. Però sono d'accordo, per quel che ne so, sul fatto che su questo testo ci sia un po' come una porta del tempo, un tunnel comunicante. Quando l'ho trovato, me lo sono letto tutto, e mi son detto... magari non dice granchè di particolare, non è interessantissimo. Poi mi sono reso conto che lo era proprio per il tempo che è trascorso nel mezzo. Di solito un così grande lasso di tempo significa anche stravolgimenti, si leggono cose che fanno pensare "eh... altra epoca", mentre invece in questo caso le cose non sembra che siano cambiate molto. Anzi, all'epoca sembrava che quei passi di miglioramento fossero i primi di un cammino verso una realtà molto diversa, a cui però oggi non pare si sia arrivati.
  4. Sempre alla ricerca di testi che possano far piacere, navigando e remando nell'archivio, vi posto questo articolo che apparve su Quattroruote del luglio 1988, che raccontava dello Stabilimento di Pomigliano che cambiava aspetto sotto la cosiddetta "cura Fiat". Non si parla tantissimo dei modelli prodotti, magari, ma rileggerlo oggi dopo 20 anni l'ho trovato abbastanza interessante. Eccovelo. LA NUOVA ERA ALFASUD Tramontato il rischio di diventare una “cattedrale nel deserto”, lo stabilimento Alfa a Pomigliano d'Arco sta per raggiungere il traguardo che già quindici anni fa gli avevano fissato i suoi realizzatori e che lo colloca a livelli competitivi europei. Dalle linee escono oggi 840 vetture al giorno, tra Alfa 33 e Autobianchi Y10. Può anche darsi che l'ambiente abbia avuto la sua parte nel determinare la travagliata storia dello stabilimento che nacque con lo stesso nome dell'auto che avrebbe prodotto: “Alfasud”. Nella piatta campagna di Pomigliano d'Arco, pochi chilometri a nord est di Napoli, con la sua imponenza il grande impianto si presenta inevitabilmente, allo sguardo, in guisa e aspetto di cattedrale nel deserto. Il guaio è che questa specie di involontaria vocazione ambientale ha corso il rischio di diventare una triste realtà, contro le intenzioni dei due uomini che quasi una ventina d'anni fa (ricordo che siamo nel 1988 col testo) misero mano all'impegnativo progetto di un grande polo automobilistico nel Mezzogiorno d'Italia: Giuseppe Luraghi, allora presidente dell'Alfa Romeo, e il suo prezioso braccio destro, Rudolf Hruska. Avviato alla produzione di serie nel febbraio 1972, lo stabilimento dell'allora “Alfasud” arrivò dopo un anno alle 400 vetture al giorno. Nel 1974 avrebbe dovuto costruirne 1000. Ma l'ambizioso traguardo non lo tagliò mai. Accomunato nella sorte alla società che l'aveva figliato, l'Alfa Romeo, sfiorò l'orlo del collasso, evitandolo solo grazie ad un intervento esterno: quello della Fiat, vincitrice di una competizione con la Ford per l'acquisizione del prestigioso marchio. Col passar degli anni, Pomigliano aveva finito col diventare quasi un emblema di tutto quello che NON deve essere un impianto industriale: antieconomico, improduttivo, ingovernabile anche perché scosso in continuazione da accessi di microconflittualità che praticamente non avevano riscontro nei due poli settentrionali dell'auto (Torino e Arese), con punte di assenteismo del 37-38%. Oggi, a un anno e mezzo dall'inizio dell'era Fiat, è tornato quello che doveva essere nelle intenzioni dei suoi realizzatori. Ogni giorno dalle linee escono 840 vetture, e il fatidico traguardo delle 1000 appare finalmente vicino. Tutto questo, a sostanziale parità di forza occupata (rispetto alla fine della gestione Alfa) e con la previsione di un reassorbimento dei cassaintegrati entro un paio d'anni. La prospettiva della cattedrale nel deserto è più che mai solo visiva. In questo contesto, il fatto che gli ultimi quattro piani della “torre direzionale” comincino adesso ad ospitare nuovi uffici, diventa forse qualcosa di più di un'annotazione marginale. Al di là delle responsabilità politiche (in senso lato) dello sfiorato tracollo Alfa, per quel che riguarda specificamente lo stabilimento di Pomigliano le ragioni della decadenza trovano i tecnici concordi su alcuni punti di fondo. Pomigliano, dicono, era nato nuovo, a tempi di record, con un prodotto totalmente nuovo e in un ambiente nuovo all'auto. L'impegno di partire con una produzione di serie (e quindi con elevati livelli occupazionali) aveva finito poi col condizionare un po' tutto. In molti casi si era dovuta “riconvertire” alla produzione automobilistica manodopera locale di tutt'altra formazione: muratori, contadini, sarti. Il tutto, nel contesto di una produzione ingessata in un solo modello, quasi impossibile da gestire in presenza di mutevoli umori del mercato. In un'epoca come il decennio Settanta, difficile anche per chi poteva contare su una gamma produttiva diversificata, e per giunta scosso dai fermenti sociali del post-Sessantotto, l'allora Alfasud poté così partire, ma non decollare. VALIDITA' TECNOLOGICA Anche la scomparsa del prodotto originario e la sua sostituzione con la 33 non riuscirono a far sentire a Pomigliano la positiva inversione di tendenza degli anni Ottanta, che venne invece avvertita a Torino, per esempio. Era impossibile, tra l'altro, anche per il clima di microconflittualità “gruppettara” che portava persino a trenta fermate al giorno sulle linee di produzione. La picchiata verso il baratro continuava, va detto, malgrado la validità tecnologica di uno stabilimento che, nato già moderno dal lavoro del tandem Luraghi-Hruska, all'inizio del decennio Ottanta era stato aggiornato, per produrre la 33, alle nuove tecnologie. Oggi (1988 ) i tecnici Fiat non hanno difficoltà a riconoscere che era stato portato agli stessi livelli degli impianti Fiat coetanei. In altre parole, quando gli uomini Fiat entrarono ufficialmente a Pomigliano, il 1 gennaio 1987, non trovarono praticamente nulla da trasformare in rottame. Per fare qualche esempio, la linea di trasporto delle carrozzerie è ancora moderna, tranne che per un dettaglio (i cosiddetti “ganci Webb” in luogo delle slitte, che negli impianti più aggiornati, sostengono le scocche in movimento). Quanto alle quattro “isole” dove vengono montati i motori della 33, dopo otto anni sono ancora perfettamente valide. Denunciano la loro età solo nelle rumorose catene utilizzate per il trasporto, ma delle quali è in previsione un cambiamento, così come sono in fase di sostituzione anche alcune macchine per la lavorazione di particolari. I motori per la Y10, va annotato, sono i Fire che vengono da Termoli, dove si sono potute attuare automazioni molto spinte che le 340 unità giornaliere di Pomigliano non giustificherebbero. I problemi più pesanti che i tecnici della Fiat si trovarono ad affrontare, con il prezioso appoggio dei colleghi dell'Alfa, forti della loro conoscenza delle cose “dal di dentro”, furono sostanzialmente di organizzazione del lavoro e di qualità del prodotto. Sullo sfondo di questo si stagliava il fattore umano. Dice un anziano dipendente (anziano nel senso che venne assunto quando l'Alfasud stava ancora nascendo), napoletano “doc”: “Non è vero che qui noialtri, noi meridionali voglio dire, non avevamo voglia di lavorare. Avevamo bisogno di essere guidati, incoraggiati, ecco tutto.” Non dice “motivati” perché non ha dimestichezza con le moderne terminologie acculturate, ma il senso è quello. Una struttura interna fondamentalmente reattiva e sana e il ritorno ad una corretta dialettica sindacale hanno fatto si che anche gli aspetti meno gradevoli della “cura Fiat”, venissero accettati. Il risultato è che oggi a Pomigliano è stato recuperato quel 37% di produttività che mancava. In altri termini, si sono trovate le Alfa 33 in più da vendere che prima filiali e concessionari inutilmente chiedevano. E alle 33 (prodotte al ritmo di 500 al giorno) si sono aggiunte, sempre al giorno, 340 Autobianchi Y10. Il grande spettro d'altri tempi, l'assenteismo, è sceso al 7% di media: tredici punti in meno rispetto alla media Alfasud. Tutto questo è stato ottenuto senza che si verificasse la “calata dei piemontesi” da molte parti paventata quando all'orizzonte di Pomigliano si affacciò la Fiat. A livello di capi, assicurano, “la migrazione dalla Fiat è pari a zero”. E aggiungono anche che “oggi quasi tutti i capi degli stabilimenti Fiat del Sud sono meridionali, così come lo sono circa il 30 per cento dei dirigenti”. Sul piano organizzativo (o riorganizzativo, come si preferisce), una prima novità introdotta a Pomigliano dalla Fiat è stata quella della divisione dello stabilimento in due unità: -carrozzeria (che comprende anche il reparto presse) -meccanica Anche per questa via, che consente una gestione più razionale delle risorse, si sono potuti ottimizzare costi e qualità. Il reparto presse, che era insaturo, ora lavora su tre turni e copre tutto il fabbisogno di Pomigliano e parte di quello di altri stabilimenti Fiat del Sud, compreso quello di Cassino che produce le Tipo. Parti delle scocche della Y10, che inizialmente arrivavano complete da Mirafiori, ora sono stampate qui. In prospettiva ravvicinata ci sono lo stampaggio e l'assemblaggio a Pomigliano dell'intera scocca della piccola Autobianchi/Lancia (lo stabilimento, è il caso di ricordarlo, è un'unità operativa della nuova società Alfa-Lancia nata il 1 gennaio 1987). Importante ai fini della flessibilità produttiva è stata la riduzione dei tempi necessari per il cambio degli stampi delle presse, un punto di forza sempre vantato dall'industria giapponese. “Oggi”, dicono i tecnici, “in termini di cambio di lavorazione Pomigliano è diventato uno stabilimento competitivo a livello europeo”. Inoltre, una linea di presse è stata completamente automatizzata: un provvedimento che i bassi volumi di produzione Alfa non giustificavano. Il passaggio da un unico prodotto a due ha poi reso possibile lo sfruttamento delle sinergie che l'integrazione ha tra l'altro comportato, ad esempio in materia di unicità di materiali e fornitori. Sulle linee, abolito il sistema dei “gruppi di produzione” che, all'arrivo della 33, aveva sostituito quello di tipo tayloristico dell'Alfasud, ma che aveva finito col creare grossi problemi di qualità, è stata adottata la stessa organizzazione del lavoro degli altri stabilimenti Fiat. A differenza di quanto avveniva all'Alfa, che considerava gli stabilimenti entità autonome, la definizione delle tecnologie produttive è stata accentrata a Torino, lasciando però ai direttori dei singoli impianti tutte le leve gestionali necessarie per raggiungere gli obbiettivi prefissati. Anche per questa via, si sono potuti ottenere gli stessi standard produttivi degli altri impianti. Così, ad esempio, sotto il profilo della qualità le Y10 che escono da Pomigliano hanno lo stesso indice di accettabilità da parte del cliente di quelle che escono da Mirafiori o da Desio. Già, la qualità: un altro capitolo fondamentale della “cura Fiat”, che per essere attuata ha richiesto una serrata trattativa sindacale, conclusa con l'accordo del maggio 1987. La nuova organizzazione del lavoro che ne è nata prevede tra l'altro che ogni addetto alla produzione assicuri, nell'ambito della propria responsabilità, un certo livello qualitativo. Essa prevede però anche che tecnici al di fuori della produzione controllino, a diversi livelli della lavorazione, che gli standard coincidano con quelli stabiliti. Si sono così annullati gli svantaggi del sistema Alfa, che affidava ad un “ente qualità” il compito di stabilire cosa controllare e a un “ente tecnologie” quello di determinare il ciclo di lavoro. La mancata integrazione fra i due enti finiva per dar luogo a degli squilibri. Ora, in pratica, ogni stadio della lavorazione è controllato anche da personale esterno alla produzione, che può bloccare eventuali difetti già a monte, sulla linea. A campione, le vetture uscite dalle linee vengono esaminate per scoprire eventuali difetti percepibili dal cliente, sulla base di uno standard europeo di valutazione messo a punto con sondaggi tra gli utenti di vari paesi e tradotto in un punteggio da 3 (difetto non avvertibile) in su. I difetti più percepibili possono così venire eliminati. La differenza di fondo tra il nuovo sistema e quello in uso ai tempi di Alfa dei “gruppi di produzione” è che questi ultimi operavano secondo propri standard di autoregolazione, che non tenevano conto dell'ottica del cliente. Sul piano delle apparecchiature per le verifiche qualitative, un fiore all'occhiello di Pomigliano è una nuova macchina Zeiss per controlli dimensionali delle tolleranze che vanta un grado di precisione di due micron (millesimi di millimetro). Al di là delle macchine e delle metodologie, c'è però anche un fattore psicologico del quale va tenuto conto: il coinvolgimento degli addetti nel discorso della qualità. I cartelloni diffusi in tutto lo stabilimento richiamano il concetto della qualità come insostituibile valore aggiunto e “gare di qualità” (con colloqui in aula, iniziati da giugno 1988 ) rientrano in questa prospettiva. Cosi come vi rientra il “prodotto della settimana”: la migliore vettura uscita ogni settimana dalle linee, esposta in bella vista su un podio con l'indicazione della squadra che l'ha realizzata. Agli effetti di una migliore qualità, particolare attenzione è stata dedicata al reparto di verniciatura, che conta 30 km di catene per il trasporto promiscuo di scocche della 33 e della Y10. I tristi tempi dell'Alfasud “a ruggine portante” sono lontani, ma in ogni caso alcuni interventi erano necessari. Sono state allungate le vasche della cataforesi per migliorare, prolungandone la permanenza nel bagno, la protezione delle lamiere ed è stato introdotto un impianto di verniciatura in più. Soprattutto, però, è stato avviato un programma che nel corso di tre-quattro anni, porterà ad un rinnovamento completo del reparto, con più elevati livelli di automazione. L'automazione è un altro tema di fondo a Pomigliano. Sulle linee della 33, dicono i tecnici, era già avanzata: la Fiat ha affrontato il compito di razionalizzarla (nel breve periodo) e di incrementarla (nel medio-lungo). Lo stabilimento di Cassino dal quale oggi esce la Tipo, con il suo elevato livello di automazione, potrebbe essere un'anticipazione di quello che Pomigliano diventerà in futuro. La parola automazione porta inevitabilmente a parlare di robot. Dicono ancora i tecnici che oggi a Pomigliano “i robot sono proporzionati al livello di produzione” e aggiungono che “in ogni caso sono superiori numericamente rispetto, per esempio, a quelli della Lancia di Chivasso, i cui livelli produttivi ne richiedono meno”. L'assemblaggio della 33 è automatizzato con Robogate, come a Mirafiori. Le varie parti della carrozzeria vengono saldate in un'isola automatizzata con: -saldatrici a punti multipli (1583 punti di saldatura) -robot (1177 punti di saldatura) ai quali si aggiungono 682 punti manuali, contro, per confronto, i 22 (saldatrici a punti multipli), 0 (robot) e 3390 (manuali) della Y10. A riprova dell'importanza sempre crescente che la robotizzazione riveste in questo settore industriale, sta il fatto che l'investimento più massiccio (una cinquantina di miliardi... 1988 ) finora effettuato dalla Fiat a Pomigliano riguarda proprio 40 nuovi robot: -12 “Smart” della Comau (la robotica del Gruppo) -28 Kuka (tedeschi) Per ora producono un particolare della sospensione della Tipo. A governarli sono per esempio ex tornitori o meccanici dell'Alfasud, che nei corsi di formazione istituiti dalla Fiat hanno imparato a maneggiare con disinvoltura i terminali di controllo. Nello stabilimento oggi sono in funzione cinque linee di montaggio: -una lunga con 120 stazioni -quattro corte con 40 stazioni Da quella lunga esce la maggioranza delle 33, mentre da due delle corte escono le Y10 e da una terza corta le 33 Giardinetta, 4x4 e Turbodiesel. La quarta linea corta è libera: per la futura Alfa che sta nascendo negli uffici progettazione di Arese? La domanda del cronista rimane inevasa, al momento. Viene invece evasa quella che riguarda una grande area vuota in un capannone, attualmente adibita a magazzino: lì nascerà, quanto prima, la 33 ristilizzata. Investire nelle linee e nei robot naturalmente non bastava. Un altro importante punto degli accordi sindacali riguardava il miglioramento della sicurezza sul lavoro. Allo scopo la Fiat ha investito quest'anno (1988 ) una decina di miliardi e altri sostanziosi investimenti sono in previsione. Il rispetto delle intese anche sotto questo profilo ha portato Pomigliano ad un clima sindacale ben più disteso rispetto alla stessa Arese. Lo ha dimostrato, recentemente, il fatto che la nuova piattaforma sindacale è stata approvata dal 62% abbondante dei lavoratori, mentre oltre il 90% di quelli di Arese l'ha respinta. Non è questa la sede per analizzare le cause del divario, che sono molte e complesse. Un discorso su Pomigliano, a questo punto non può chiudersi solo su Pomigliano. La ripresa dello stabilimento rafforza l'importanza del polo industriale che la Fiat ha creato nel Mezzogiorno, investendo finora 5200 miliardi di lire (1988 ). Con altri stabilimenti, il totale degli insediamenti produttivi Fiat nel Sud oggi è di 29, con circa 50 mila addetti. Di questi, 32 mila operano nel settore automobile. Entro pochi anni, ha detto Cesare Annibaldi, responsabile delle relazioni esterne Fiat, si produrranno 2800 vetture al giorno: vale a dire un buon 40% della produzione automobilistica nazionale. Ed è correttamente ipotizzabile che, in vista del traguardo europeo del 1992, Pomigliano si candidi anche per operare competitivamente in un contesto esteso oltre i confini nazionali. “Fra l'altro”, osserva un tecnico, “uno stabilimento da 1000 vetture al giorno è un grande stabilimento: la Audi, per rendere l'idea, non arriva a questo volume di produzione”. Alla luce di questi dati può valere la pena rileggere un'affermazione che Giuseppe Luraghi formulò più di quindici anni fa, al tempo della nascita dell'Alfasud: “Si sta creando un fatto del tutto nuovo: il fatto cioè che lo sviluppo automobilistico italiano per i prossimi anni avrà sede proprio nel Sud, dove si diceva che non sarebbe mai stato possibile neppure l'inizio di questo tipo di attività”. Allora, essere facili profeti era impossibile. Ci voleva vista lunga, questo si. Fine (articolo di Giuseppe Dicorato da 4R luglio 1988 ) Paolo GTC
  5. Un po' perplesso riguardo ad Accord e alla sensibilità dei suoi window bag. Non è la prima volta che vedo un'Honda con le tendine calate anche se sta picchiando il naso. Me la vedo fare un frontale o sbattere contro una roccia, scendono i window che potevano fare a meno, l'auto carambola contro un palo, e i window ormai sono flaccidi. Mah. Sarà un caso eh.... però con Honda non è la prima volta che mi capita di vederlo.
  6. Le mie idee saranno terra-terra,ma di nomi carini ce ne sono tanti.... non sono originalissimi ma visto "Milano".... Veloce, Vivace, Nuvola, Balocco...
  7. Questa è una cosa che ho sempre condiviso, infatti quando mi dedico a queste retrospettive, se si tratta di testi arrivati da riviste del passato, nel citare la fonte ho sempre un doppio obbiettivo (che a volte si può cogliere di più -nel caso gli argomenti siano trattati in maniera un po' troppo diversa dalla realtà- o di meno -nel caso si tratti si sfumature poetiche o di parte-). Fare retrospettiva su un dato argomento, e farla anche su "come" veniva trattato, a seconda del "dove", veniva trattato. Nel caso di questo articolo, ora non voglio accendere focolari su chi apprezza la tal testata, ma mi è sempre parso che articoli che trattavano certi argomenti, di certe case, su certe riviste, siano sempre stati piuttosto romanzati, non dico abbelliti, ma di sicuro un po' filtrati. Una retrospettiva a due facce, sul "cosa" si trattava, e come. Per questo mi dilungo sempre nel citare la fonte e specificare che son cose da tenere "relativamente" in considerazione come "verità". E' per me un tuffo nel passato, anche dell'informazione, rileggendo storie come potevano arrivare alle persone, le quali si potevano fare delle idee, che poi portavano a delle azioni concrete. Trovo interessante questa cosa, tenere legato a doppio filo il fatto e come veniva raccontato, perchè l'informazione è sempre stata capace di creare o disfare, con grande forza. Un esempio stupido, sarebbe incompleto riportare una prova di una qualunque schifida utilitaria sfigata, malmessa e malconcepita, una prova piena di 9 e 10 in pagella, senza dire che è di GM, che ai tempi dava 9 e 10 a tutti.
  8. Grazie mille bialbero (colgo l'occasione per farti i complimenti per il sito perchè è da Oscar)... leggendo mi sembra che certe parti poi Chirico le abbia riportare pare pare nel suo volume. Prima stavo pensando all'argomento di questo topic e mi sono soffermato su un quesito... che fosse impostata per TA, per TP, o entrambe, questa 152, il cui motore andò al banco prova... non ne fu mai costruita veramente una, giusto? Mi sembra di capire che come auto in sè, non andò oltre i tavoli da disegno.. ma anche così, non esiste nulla su di lei, come documentazione stilistica? Non era ancora nella fase di definizione carrozzeria, non esistono bozzetti? Le pagine di 4R riportano solamente due viste di uno spaccato (poco visibili in verità, sono di sfondo sull'immagine che apre il servizio e mostra l'avantreno 164 con tanto di V6) ma è solo lo schema tecnico e di abitacolo....
  9. A me piace parecchio! Soprattutto per l'idea che hai avuto di formare un piccolo diedro sulla battuta del portellone, alleggerisce molto la massa. Bella bella, ammemmepiasce!
  10. Infatti bialbero, la tua risposta di oggi cade a pennello nel quesito che mi ero posto io, (che non può avere risposta, forse, per certi versi). La genesi del prog. 156 come trazione posteriore, troncata dalla costrizione su un T4 già definito e di conseguenza abortita in favore del 164, lascia intendere che la TP restasse l'idea di Alfa... direi almeno da D in su. Tempo prima però, stando al testo, si pensava ad una variante di studio 152 a TA (ripeto, stando al testo, non sto facendo affermazioni).... che poi però lo stesso testo non spiega come finì e perchè. Sul fatto di non dover infastidire la famiglia BEEEEE sono pienamente d'accordo, ma credo si possa riferire di più ai suoi amati segmenti "popular". 152, stando al testo, avrebbe dovuto essere una... D? O meglio D bassa, visto che di Alfetta si è parlato un po' come E, un po' come D alta. Non so se i ripensamenti possano essere stati inculcati anche qui da tanti gradini più in alto... insomma mi sembra di più un "No" tutto Alfa, in questo caso. Si legge nel testo (prendendolo per corretto al 100 per 100, per ipotesi) che Busso continuò a sviluppare 152 e che il suo motore andò al banco. Poi... bum... si legge semplicemente che fu l'inizio della fine, senza tanti dettagli (non ho saltato paragrafi ) Quel che non mi è chiaro e che mi stuzzica, è capire se Busso continuò su 152 anche come studio in versione TA, e se si, il motivo dell'accantonamento. Può essere che anche a questi livelli di segmento un'Alfa TA fosse vista come un fastidio per le medie gianduiotte? Oppure fu una decisione tutta alfista, che sfociò nell'impostazione di prog. 156?
  11. Ho aperto questo topic per riportare una interessante storia raccontata nel 1988 da Quattroruote, che parlava di come la trazione anteriore avesse fatto capolino più volte nelle vicende Alfa, fin dagli anni 40. In principio avevo pensato di inserirla direttamente nel topic della 164, in quanto l'argomento nasceva come retrospettiva, ai tempi, appunto dal lancio dell'ammiraglia a trazione anteriore del 1987. Però poi, osservando come si snocciolano le discussioni fra appassionati (in modo piacevole, per carità, ma anche molto prolungato, a volte) ho pensato che saremmo andati ad inquinare il topic 164, visto che l'argomento è da sempre fonte di grandi dibattiti. Una considerazione personale, ed una precisazione, riguardo quanto state per leggere. L'articolo tratta la trazione anteriore in maniera direi positiva e auspicabile per Alfa, e sappiamo bene che questo dipende dai punti di vista. Pertanto vorrei precisare che questo testo è tratto da un articolo di 4R, e non sono considerazioni mie personali. Non è che ne sto prendendo le distanze, perché sono di altre idee. Soltanto precisavo, per evitare che si creasse una discussione per aver interpretato che questo qui sotto sia il mio pensiero, e tanto meno che io mi sia messo a scrivere “come sono andate le cose”. Abbiamo già visto in precedenza che a volte gli scritti non corrispondono a realtà, e quindi, prendetelo per uno scritto, appunto. L'autore era Giuseppe Dicorato. -Nel 1987, quindi, Alfa era entrata alla grande nel mondo della trazione anteriore, e parlandone si poteva un po' fare il punto, rivisitando la storia di quarant'anni di studi sul “tutto avanti” prima negli uffici del Portello e poi in quelli di Arese. L'ingegner Orazio Satta Puliga cominciò infatti ad occuparsi di trazione anteriore in Alfa già nel 1947. Satta per decenni insistette perché la casa del Biscione giocasse la carta della trazione anteriore, ma i vertici fecero un'unica eccezione, per l'Alfasud. Nel 1947 all'Alfa Romeo erano in diversi a essere convinti della validità della trazione anteriore già sulla base della teoria, prima ancora di aver guidato un'automobile di quel tipo. Il problema, lo sapevano benissimo, non era facile, tuttavia. Scrisse Giuseppe Busso: “Per beneficiare del fondamentale vantaggio di avere anche motrici le ruote anteriori sterzanti, accrescendo così la controllabilità della vettura specie in condizioni di scarsa aderenza del suolo, e per sfruttare al massimo gli altri grandi vantaggi della concentrazione in un unico gruppo compatto, complessivamente più leggero, e, alla lunga, meno costoso, dovettero essere affrontati e risolti moltissimi problemi.” Prima di affiancare Satta nella battaglia per il passaggio alla trazione anteriore, Busso si era fatto un po' di ossa in materia alla Ferrari, dove dal giugno del 1946 alla fine del 1947 era andato a dirigere l'ufficio tecnico. Lì, il futuro “mago di Maranello” l'aveva messo al lavoro sui piani costruttivi dei prototipi della 125: una Ferrari progettata da Gioacchino Colombo, con motore a dodici cilindri di 1500 cc e un ponte posteriore rigido con balestre. Sempre Busso, parlando di quel periodo: “Durante una delle memorabili strippate dal “Peppo” con noialtri pezzi grossi della Scuderia, alla quale Ferrari ci ha abituati, il Capo mi lascia capire che non gli spiacerebbe mettere in cantiere anche una vettura più piccola, che della 125 utilizzi tutto quello che si può. E io mi butto senza indugio: non può che essere una trazione anteriore.” Con metà del motore di Colombo, il giovane tecnico prepara un progetto di massima per una 750 cc con una quarantina di cavalli di potenza e una velocità sui 140 km orari. Ma quando lo fa vedere ad uno dei capi, Bazzi, questo lo smonta subito. “Ci ho provato anch'io a proporgli una trazione anteriore, ma “lui” proprio non la vede”, gli dice pressappoco. E così è: inutilmente Busso nella sua proposta ricorderà a Ferrari che al Salone di Parigi c'è stato, in aggiunta alle Citroen e alle altre già conosciute, un autentico “boom” di nuove trazioni anteriori. Il “NO” di Ferrari è secco. Ed era il primo di una serie. Richiamato da Satta, all'inizio del 1948 Busso torna all'Alfa per lavorare al progetto della 3000. Non è una vettura di soddisfazione: grossolana, pesante, concettualmente più un autocarro che un'auto. E così non passa molto tempo prima che il progetto venga abbandonato, senza eccessivi rimpianti. Satta è d'accordo coi suoi collaboratori sul principio di una vettura più semplice e moderna, economicamente conveniente e, naturalmente, a trazione anteriore. L'idea viene approvata anche dall'ingegner Alessio (che nell'ottobre del 1949 sarebbe diventato direttore generale dell'Alfa), il quale però pone una condizione: il motore deve essere un 4 cilindri boxer. L'idea non convince i progettisti, che stimano il boxer un motore inevitabilmente più costoso di un trasversale, ma comunque bisogna mettersi al lavoro. Nasce così un quattro cilindri da 1750 cc che, tanto per provare, viene studiato in due versioni: in linea e piatto. All'inizio del 1949 Satta va a Roma a mostrare il progetto ai vertici della Finmeccanica. Il risultato è un “NO” secco all'idea di un'Alfa a trazione anteriore, accompagnato dalla richiesta di un'auto a sei cilindri “intorno ai 2000 di cilindrata”. Per la cronaca, quello è il primo di una serie di “NO” che pioveranno negli anni a venire su tutti i progetti di vetture a trazione anteriore sostenuti da Satta. A questo punto, sembrerebbe legittimo chiedersi se le risposte date da vertici in frenetico subbuglio fossero basate sulla competenza tecnica necessaria, su una scelta strategicamente tanto importante. Un'opinione corrente fra diversi addetti ai lavori che vissero quegli anni di passione era che non fosse necessario essere dei tecnici per capire che il futuro di un certo tipo di auto (non tutte, ovviamente....) era nella trazione anteriore. Poi, come si dice, bastava affidarsi ai tecnici, come Luraghi fece con Hruska quando si trattò di creare dal nulla l'Alfasud. Chi ha conosciuto da vicino Satta non ha dubbi sul fatto che i vertici di allora avessero in lui un uomo che, lasciato libero di scegliere le soluzioni, e soprattutto gli uomini, avrebbe potuto imprimere un impulso innovatore alla Casa. Qualche “vecchio” dell'Alfa si spingeva più in là: “Senza Satta e la sua tenacia, forse non ci sarebbe stato nemmeno Arese.” Dalla nuova richiesta della Finmeccanica per un'Alfa “intorno ai 2000 di cilindrata”, l'equipe di Satta fa nascere la 1900, che nelle diverse versioni riscontra un rilevante successo. Poi, in uno dei tanti minuetti dirigenziali che costellano la gestione Finmeccanica dell'azienda, rientra al Portello Gioacchino Colombo. Si apre allora un periodo di contrasti interni che termina soltanto nel 1952, quando Colombo esce di scena. In quel periodo, bloccata ogni idea di trazione anteriore, la progettazione Alfa trova soddisfazione nella Matta: una fuoristrada militare voluta dalla Finmeccanica per dimostrare che anche l'Alfa, come la Fiat con la Campagnola, sa fare veicoli di quel genere. La Matta viene messa a punto in stretta collaborazione con il colonnello Garbari, direttore degli esperimenti sulle vetture militari. Sul campo di prova, anche i più ferrati tecnici dell'Alfa si trasformano in suoi allievi e fanno tesoro di molte cose che imparano. Ne viene fuori un veicolo tutt'altro che male, il quale fra l'altro sconfigge la Campagnola alla Mille Miglia del 1952. In pratica, però, la Matta rimase un fiore all'occhiello dell'Alfa: se ne produssero circa 2400 e non si andò oltre anche per far posto alla Giulietta, che sgomberò i tavoli da tutti gli altri progetti. Fra i progetti spodestati da quello della Giulietta, nel 1952 rispunta una trazione anteriore. Vengono studiate diverse soluzioni, anche perché, come al solito, le idee ai vertici sono tante e confuse. L'ingegner Franco Quaroni, direttore generale, pensa ad un motore da 800 cc, mentre l'ingegner Pasquale Gallo (primo presidente Alfa del dopoguerra) spinge invece per una 350 cc a due tempi. E' una delle tante cose sorprendenti (a dir poco) nella storia di quarant'anni di impervio cammino della trazione anteriore all'Alfa. Tra i “vecchi” qualcuno ricorda che Luraghi, quando chiese a Hruska di progettare l'Alfasud, non gli disse “mi faccia una 1200”, ma “ mi progetti una vettura che soddisfi le esigenze di una fascia di mercato così e così, e quanto alla cilindrata se la veda lei”. Gallo, invece, a quanto pare, la 350 la voleva esclusivamente in base a convinzioni personali. Nelle discussioni che ne seguirono, comunque, Gallo dovette cedere e al posto del modernissimo 350 cc si partì da un più ragionevole due cilindri in linea trasversale da 600 cc. Si partì, ma non si arrivò in nessun posto. Il progetto, che aveva anche trovato un inatteso avversario in Hruska (dalla metà del 1952 consulente generale dell'Alfa), fece la misera fine di tanti che lo avevano preceduto. E in ogni caso, con la nomina a presidente di Giuseppe Luraghi, era arrivato il momento di occuparsi della Giulietta, che sarebbe stata presentata ufficialmente alla stampa circa un paio di anni più tardi. Mentre la Giulietta imbocca la strada del successo, con una tenacia degna di miglior causa i vertici rispolverano l'idea della microvettura. Erano in tempi in cui in Finmeccanica qualcuno aveva il chiodo fisso di fare concorrenza alla Fiat nelle piccole cilindrate, invece che permettere ad Alfa, come infatti pensava Satta, di coltivare e sviluppare la sua fascia, quella più alta. Nel 1953, a dicembre, qualcuno comincia addirittura ad azzardare un nome per la futura microvettura.... “PIDOCCHIO”. Sull'identità del qualcuno le cronache stesero pietosamente un velo. Nel 1955 la Fiat presenta la 600, e Satta parte alla carica insistendo sul fatto che la futura piccola Alfa dovrà essere qualcosa di più, e non di meno, della piccola Fiat. All'inizio del 1957 inizia a cristallizzarsi l'idea di un quattro cilindri di circa 900 cc con raffreddamento ad aria e, naturalmente, trazione anteriore. Nel gennaio 1958 sono pronti i primi disegni, che Hruska approva fissando per il settembre del 1961 il termine invalicabile come inizio della produzione. Nell'agosto del 1959 cominciano a girare le prime indiscrezioni sulla Mini di Issigonis: Satta e i suoi non possono fare altro che recriminare sul tempo perduto, e tirare avanti. Alla fine di quell'anno prendono forma carrozzeria e meccanica della 103, una vettura con un motore di 896 cc che comincia a girare al banco il 28 febbraio 1962. Nell'agosto successivo, la 103, prima e solitaria trazione anteriore dell'Alfa Nord arrivata in strada, comincia a muoversi. Ma ha vita breve. Si ha tempo di collaudarla giusto quel tanto che basta per scoprire che ha uno sterzo molto duro e che sarebbe bisognosa di una lunga messa a punto. Ma il tempo non c'è, dati nuovi ripensamenti al vertice. Dopo tanti pensieri per la microvettura, ora la 103 viene giudicata troppo piccola e si pensa invece ad una 1300 cc a trazione anteriore (incredibilmente). Ma anche questo progetto, vittima di ripensamenti a pioggia, non va oltre lo stadio dei tavoli da disegno. Insomma, in casa Alfa si continua sulla vecchia strada della trazione posteriore, inconsapevolmente ligi a quello che un ingegnere tedesco aveva affermato nel 1931 al Salone di Berlino, dopo aver visto la DKW F1 a trazione anteriore: “Il Signore Iddio, nella sua infinita saggezza, non per nulla ha dotato le sue creature più veloci, come ad esempio le lepri, della trazione posteriore.” E' così, tra l'altro, nel 1967, nasce la 116, progenitrice dell'Alfetta, della Nuova Giulietta, della 90 e della 75. Dall'Alfetta, presentata alla stampa il 17 maggio del 1972, viene derivata una vettura, sempre a trazione posteriore, che dovrebbe collocarsi tra la 116 e l'Alfasud: è la 152, nella quale il cambio non è più al posteriore, in blocco col differenziale, ma riportato davanti. Con la 152 torna una speranza per la trazione anteriore. Succede ai primi di marzo del 1973, quando Satta autorizza i suoi collaboratori più diretti a studiarne una versione a trazione anteriore. Ma è troppo tardi... alla fine di quello stesso mese, Satta è su un tavolo operatorio dell'Istituto neurologico di Milano, dove tentano invano di arrestare quel male che lo stroncherà il 22 marzo 1974. Tra i suoi collaboratori, Busso lo vedrà per l'ultima volta nel gennaio 1974. In quell'occasione, sbalordirà i familiari di Satta stendendo i disegni della 152 sul letto del malato. Poi, scomparso Satta, Busso continuerà a sviluppare il progetto della 152, chiedendo fra l'altro al Centro Ricerche Alfa di sviluppare un sistema antipattinamento (ASR) allora già sperimentato e poi abbandonato negli Stati Uniti, e in questi anni tornato d'attualità. Il motore della 152 comincia a girare al banco qualche giorno prima di Natale 1975. Questo non sarà però un punto di partenza, ma d'arrivo: anzi, per essere esatti sarà l'inizio della fine per la 152, l'Alfa a trazione anteriore che avrebbe potuto precedere di un buon decennio la 164. Fine. Non so dire se tutto sia stato così, o meno. Indubbiamente è una storia interessante. PaoloGTC
  12. Mitico. Semplicemente mitico. Da me (in Piemonte) si dice "andiamo a mangiare un panino dal lurido" , alla fine tutto il mondo è paese. Oppure dal "vuncio", da "vunciun" in dialetto, che sta appunto per sporco e lurido. Ottima idea comunque, la Paneemmerda... è già pronto anche lo slogan da mettere su un'eventuale tenda parasole. "Da Stoccarda con tanta mostarda".
  13. In effetti, ora il sederino, portato fuori (anche se in realtà è fuori perchè è rientrato il lunotto) sembra avere più massa in alto che in basso, mi ricorda un po', con le dovute proporzioni, lo stile di Opel GT, tanto paraurti e i fari lassù in cima. Si, forse ci vuole una smussata (che credo dirà anche qualcosa in più di stile 911)
  14. Me la ricordo la RIO, qualche tempo fa avevo postato una spy shot che la riguardava nel topiccone dei prototipi Alfa. Ricordo che creava una gran confusione sulle riviste, confondendosi con la futura 119. IMHO però era meno riuscita esteticamente di 6. Perchè a me 6 piaceva, e mi piace ancora. A mio parere, davanti (prima serie) non le si poteva dire proprio nulla, dietro quei fanali sembravan fatti apposta per renderla brutta.... però era un "brutto" particolare, mi viene da usare un termine che lessi su una retrospettiva Volvo riguardante 740-760. Drammatica. Nel suo non essere bella e sfavillante, incuteva timore, che non era una brutta cosa per un'ammiraglia. Mi piaceva anche la storia degli smussi sui piani di coda e frontale, aggiunti, ricordo, durante la definizione del design finale. Rendevano il tutto più massiccio. Questo ovviamente portava la cosa ad essere giudicata molto in base ai gusti... perchè erano dettagli che si apprezzavano in pieno (e per me era così) o da rifiutare totalmente. Per me oggi la 6 è proprio questo, non è bella, ma mi piace, perchè ha un immenso carattere.
  15. Capperi veramente ben fatta! Compliments! Sai che gli farei ancora io (si lo so, sono fissato con quello che ho fatto ieri sera)? Soltanto la modifichina al taglio del portellone per allinearlo ai fari, e il portatarga più sottile. Al limite al limite, un ultimo ritocco alla battuta del portellone zona alta, perchè IMHO mentre quella e il profilo porta posteriore si toccano, piangono un pochino. Ma sta veramente bene IMHO. Molti compliments!
  16. Mi raccomando non me la rovinare che ci ho perso ben 21 minuti Guarda che metto il copy sul nome SembraVera Se vuoi tu puoi fare la MacchiaNera. :b35
  17. Aggiungerei anche il fatto che i primi mesi di produzione di 90 non furono esenti da problemi di affidabilità di vario genere, che non fanno mai bene, e specialmente nel periodo in cui un'auto si sta proponendo nel passaparola della gente. Anche Chirico nel suo libro ricorda come l'esordio non fosse dei più esaltanti, arrivando al punto da definire un programma per intervenire a fondo sui problemi della 90, quando ormai l'auto era sul mercato da svariati mesi. Le cose migliorarono successivamente, ma comunque il tempo rimasto era poco, e la 75 era una forte rivale in casa. Penso che 75 ebbe anche il merito (e quindi il riconoscimento nelle vendite) di essere molto più Alfa "come doveva essere" in fatto di design, proprio paragonata alla 90, che un anno prima aveva forse dato l'impressione che il design Alfa stesse andando nella direzione sbagliata...in fondo negli ultimi anni il design Alfa aveva dato qualche dispiacere... una vecchia 6 per ammiraglia, restyling con la plastica, che vabbè, era il suo momento, ma che su certe Alfa rovinavano tutto, il lancio di Arna, il Duetto spoilerato in maniera orrida... c'era la 33 che salvava, ma in effetti vedersi dopo queste cose il lancio di 90, secondo me metteva un po' di ansia per il futuro stilistico. Probabilmente 75 apparve anche come una gran bella boccata d'ossigeno. Cioè, non era nuova nuova, ma quanto era più riuscita e Alfa? Tantissimo.
  18. E' vero, l'avevo notato anche io. Alfetta e Giulietta venivano viste più staccate di quanto furono 75 e 90. Forse per 75 e 90 il fatto di nascere così ravvicinate e figlie di uno stesso pensiero (intendo rimodernamento ottantesco, intendo come estetica, con plastiche e via dicendo) le mise vicine... probabilmente fu anche il fatto della miglior riuscita di 75, inteso di come riuscì a crearsi subito uno spazio con carattere, mentre la 90, forse fu vista in maniera più blanda. Di certo il progetto estetico era più riuscito, personalmente non ho mai trovato che Bertone avesse fatto un lavoro divino sulla 90, Cressoni fu molto più in gamba IMHO. Insomma, per me vedere in gamma 75 e 90 era come vedere in seguito 156 e 166.... la più piccola non faceva fare una bella figura alla più grande (sempre parlando di estetica, e a titolo personale)
  19. Io mi ci sono messo ugualmente, tanto per perdere mezz'ora... Sicuramente il posteriore in generale non è nato bene, tuttavia trovo che ci siano alcuni elementi di design che fanno di tutto per renderlo ancora peggiore. Primo fra tutti il portatarga che messo lì ogni volta che lo vedo mi fa l'effetto di un pugno sul naso. Secondo, le linee del taglio portellone che ci vanno morire dentro, dicendo "guardate un po' che schifo 'sto portatarga". Inoltre ovviamente, è pesante e culona. Così ho modificato un po', per quel che mi veniva e che si poteva, senza stravolgere tutto. Il portellone è rimasto lui, e anche il vetro, ho soltanto portato la battuta lineare coi fari, i quali hanno cambiato grafica e sono un po' più grandi e allungati (e sul parafango cambiano un po' taglio, dove ho anche modificato il taglio verticale tra paraurti e parafango perchè è una cosa che detesto su tutte le auto). Poi ho alzato un po' la parte inferiore, riducendo il volume in altezza delle sinuosità e puntando più sull'orizzontale che sul verticale (in questo ho cercato di aiutarmi anche con la grafica dei fari e semplificando gli scarichi). Ah, ovviamente ho tolto PORSCHE... Non credo che sia poi migliorata molto, però a me piace un po' di più... o meglio, le ho fatto le modifiche che le farei io, se fossi nella situazione in cui non si può cambiare moltissimo.
  20. Quoto ACS riguardo al fatto che si fa una gran fatica a paragonare il mercato a segmenti di oggi con quello di allora. Oggi, oltre alla nascita di diecimila nicchie (che odio, personalmente, hanno confuso tutto e tutti e fanno credere che esistano auto che ci servono davvero, e che invece non servono a niente e alla fine non sai perchè l'hai comprata), si è mischiato tutto... abbiamo C con motori da D, e D con motori da C, per non parlare di D che con il prezzo piombano di brutto nell'E... certi preventivi per A4 e Sr3 sentiti da amici fan pensare se non sia il caso di optare per A6 e Sr5. Questo accade anche nei segmenti inferiori, se oggi (lasciando perdere sconti, promozioni e Km0, cioè quello che poi alla fine ottieni se entri in concessionaria, a seconda di quanto piangi tu e di quanto piange lui) vado in Opel e mi scelgo una bella Corsa 5 porte 1.3 CDTI 90cv con un po' di accessori, mi ritrovo con una compatta che non è uno scherzo vederla a 18 o 19 mila... e allora dico "ma se prendo un'Astra a 'sto punto?". E' tutto mischiato, non c'è più divisione netta. Quoto anche per il fatto che 90 fosse messa in pieno di fronte a Thema... semmai era il sapere che era un rimaneggiamento estremo e plasticato di vettura precedente, a farci pensare che non fosse all'altezza (pensando correttamente o meno, a seconda dei punti di vista)... cioè il modello in sè, ma non la politica. A tutti gli effetti era la E di Alfa in quel momento, che poteva quello che poteva.
  21. Intendi la Magia per caso? http://www.conceptcars.it/carrozzieri2/iad/magia1.jpg http://www.conceptcars.it/carrozzieri2/iad/magia2.jpg Concept IAD nata nel 1992 su base Dedra Integrale. Mi piaceva un sacco.
  22. Infatti,mi sembra più Superb che Passat. (che poi Superb era una Passat con l'ombrello nel pannello porta )
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