Ti dico la mia.
La flessibilità in entrata è oramai sufficiente per la generalità delle imprese e delle situazioni produttive.
Secondo me con la legge Fornero e con i limitati correttivi dell'ultimo D.L. Lavoro del governo Letta, si è giunti al giusto equilibrio fra flessibilità e tutela del lavoro.
Poi ci possono essere casi straordinari (vedi Expo) in cui servono norme ad hoc.
Durante l'ultimo governo Berlusconi, l'allora ministro Sacconi, nel D.L. 138/2011, si inventò le deroghe alle leggi e ai contratti nazionali ad opera dei c.d. contratti di prossimità (contratti aziendali o territoriali stipulati per specifiche ragioni, quali il rilancio dell'occupazione, la gestione delle crisi, l'incremento della produttività, etc.). Indubbiamente, visto il suo non grande feeling con i sindacati, lo confezionò come "polpetta avvelenata", tant'è che i sindacati medesimi e (incredibilmente) Confindustria fecero un accordo interconfederale in cui, sostanzialmente, si impegnavano a non usarlo.
Quello strumento, obiettivamente, può aprire la strada ad abusi, ma, se usato responsabilmente, può anche risolvere dei problemi come quelli evidenziati per l'Expo, senza necessità di norme straordinarie, bensì nell'ambito della normale contrattazione fra parti sociali. Il problema è che la CGIL non lo vuole neanche sentire nominare. Ed il suo atteggiamento è dettato da mere ragioni ideologiche, cioè la sacralità del contratto nazionale che, poi, è il medesimo totem che ha scatenato lo scontro fra FIAT e Fiom. Ed allora ecco che ritorniamo al solito corto-circuito: in Italia non si può fare niente per il rilancio del lavoro perché il sindacato più rappresentativo (?) si mette di traverso e pretende che i problemi del lavoro siano risolti con maggiori costi per il pubblico. Megaconcorsi, opere pubbliche (ma medio-piccole, non sia mai che si possa pensare che siano favorevoli alla TAV), sgravi per le assunzioni (e qui il governo Letta li ha seguiti).
Non ne usciremo mai.