Le cause che ho citato sono valide per molti ma non per tutti.
Negli USA, dove le tasse non sono elevate e l'instabilità dei rapporti di lavoro c'è sempre stata (ed in parte addirittura favoriva la mobilità sociale), la polarizzazione deriva da un ormai inesorabile abbandono della produzione in favore della finanza. La produzione viene sempre più affidata all'estero, mentre in patria si fanno solo "gli affari". E "gli affari" non creano occupazione. Una cosa simile si può vedere anche nel Regno Unito.
Ritornando all'Italia, che mi interessa di più, forse le cose sarebbero andate diversamente se una decina di anni fa la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro fosse stata gestita in maniera meno ideologica dalle parti sindacali.
Per intenderci se essi, piuttosto che rifiutarla in blocco (ben sapendo che certe modifiche non possono essere fermate ed infatti non lo sono state), avessero chiesto in cambio l'attivazione di politiche di incremento salariale per i lavori più flessibili, non ci ritroveremmo oggi con un esercito di precari letteralmente portati alla fame.
La vera piaga non sta nel fatto che tali contratti non sono caratterizzati da stabilità, ma che essi sono, anche in termini economici, enormemente meno onerosi per il datore di lavoro.
In questo quadro, considerata anche una certa miopia della nostra classe imprenditoriale che non riesce a valorizzare le professionalità, il rapporto di lavoro stabile è stato messo completamente fuori mercato.