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  1. Messaggio Aggiornato al 16/10/2015 Coupé Roadster carscoop - autoblog.it Press Release : Aston Martin Prezzi: ----- Che gran figata st'auto!!! Quel blu poi è divino! Scoperto comunque cos'erano quei muletti, non era il Facelift ma la S.
  2. Nel numero di gennaio 1995, in occasione della presentazione della DB7, Quattroruote scriveva così dell’Aston Martin: “Aston Martin. L’equivalente automobilistico dell’Araba Fenice. Tutti sanno che esiste ma alzi la mano chi, in Italia, non dico ne abbia guidata una, ma ne ha vista passare qualcuna per strada. Anzi, a voler essere realisti, la totalità degli italiani le granturismo di Newport Pagnell le conosce soltanto perché Sean Connery ne guidava una in 007: Missione Goldfinger del ’64 o perché ogni tanto i giornali cosiddetti scandalistici colgono il principe Carlo d’Inghilterra mentre porta a far un giro la sua Vantage. Il resto è mito”. Questo thread nasce quindi proprio dalla voglia di entrare in questo mito cercando di portare alla luce una casa automobilistica e, in particolare, un’auto sicuramente poco conosciuta e forse proprio per questo, secondo me, non abbastanza apprezzata: l’Aston Martin V8. Ovviamente non sto parlando dell’omonimo modello attualmente presente a listino della casa automobilistica inglese, ma più precisamente della prima vettura ad 8 cilindri prodotta negli stabilimenti di Newport Pagnell dal 1972 al 1990. In realtà il modello nacque qualche anno prima e precisamente nel 1969, con il nome di DBS V8. All’epoca la casa automobilistica era infatti di proprietà di Sir David Brown e, di conseguenza, tutti i modelli portavano le sue iniziali. Il modello DBS era nato nel 1967 equipaggiato con il 6 cilindri in linea di 3995 cm3 della precedente DB6. Corredato di tre carburatori doppio corpo, raggiungeva una potenza massima di 282 bhp (1 bhp equivale a circa 1,014 CV) nella versione normale e 325 bhp in quella Vantage dotata 3 carburatori Weber al posto dei più convenzionali SU. La nuova auto era più lunga e più larga della DB6 ma, carrozzeria a parte, non rappresentava un grande miglioramento in fatto di prestazioni. In effetti la casa automobilistica stava già mettendo a punto il V8 che di lì a 2 anni avrebbe equipaggiato la DBS trasformandola così nella DBS V8. Già da 3 anni, infatti, la piccola casa inglese stava studiando il nuovo motore che, inizialmente disegnato da Tadek Marek, chief engineer polacco della casa di Newport Pagnell, fu portato a termine dal suo successore Dudley Gerson. Si trattava di un 8V a 90° di 5340 cm3 realizzato in larga parte in lega leggera, con 2 alberi a camme in testa per bancata. Le camere di scoppio erano emisferiche ed il rapporto di compressione era di 9:1. Completava il quadro il sistema di alimentazione ad iniezione meccanica Bosch, scelto (secondo la rivista Road & Track del febbraio 1970) per accorciare i tempi di produzione che si sarebbero inevitabilmente allungati qualora si fosse deciso di adottare il sistema ad iniezione elettronica della britannica AE-Brico, già sperimentato sulla DB6 ma il cui adattamento al grosso V8 avrebbe richiesto parecchio lavoro. Il dato della potenza massima, invece, non fu dichiarato ma la rivista americana stimava sulla base del dato di coppia che ammontava a 400 lb-ft (circa 540 Nm!) che la potenza massima si aggirasse tra i 350 ed i 370 bhp calcolati secondo norme DIN. Tutta questa potenza era trasmessa alle ruote tramite un cambio manuale ZF a cinque rapporti o, a richiesta, un automatico Chrysler Torqueflite a 3 marce. La sospensione posteriore prevedeva uno schema De Dion con parallelogramma di Watt e dischi freno inboard per ridurre il peso delle masse non sospese (vi ricorda niente questo schema? ;-)). Il tutto era completato con una barra antirollio. La sospensione anteriore invece era a quadrilateri deformabili con ammortizzatori telescopici coassiali alle molle elicoidali e barra stabilizzatrice. I freni erano autoventilanti sulle quattro ruote. Era chiaro a tutti che la DBS V8 aveva Ferrari nel mirino. Le prestazioni infatti risultarono notevoli. Nella prova su strada effettuata dalla rivista Motor nel marzo 1971 la DBS V8 raggiunse la ragguardevole velocità massima di 258,2 kmh con un’accelerazione da 0-60 miglia orarie (96,5 kmh) in soli 5,9 secondi. I 400 metri da fermo furono percorsi in 14,3 secondi mentre il chilometro in 25,3. Anche la rivista Autocar, 4 mesi dopo, ottenne risultati analoghi in termini di velocità (260,7 kmh) e di accelerazione (25,6 secondi sul km da fermo). A titolo di confronto ricordiamo che la contemporanea Ferrari 365 GTC era accreditata di una velocità massima di 245 kmh con un’accelerazione da 0-60 mph in 6,3 secondi. Nonostante questi ottimi risultati, però, la V8 era nata con un tallone d’Achille abbastanza evidente: il sistema di iniezione. Durante le prove su strada, entrambe le riviste criticarono aspramente l’irregolarità dell’alimentazione ai bassi regimi, la mancanza di coppia (di coppia!) al di sotto dei 1500 giri ed il battito in testa a bassa velocità. Inoltre, al fine di avere un regime di minimo accettabile, l’iniezione era stata settata con un leggero ritardo che causava spesso problemi in occasione delle ripartenze ai semafori. Nel 1972, a seguito di problemi finanziari, David Brown vendette l’azienda alla Company Development Ltd, un consorzio di esperti di finanza più che di appassionati di motori. L’esito di questo passaggio di mano fu la rimozione delle iniziali del precedente proprietario dal nome dell’auto che, quindi, divenne semplicemente V8. Oltre al cambio di nome ci fu un aggiornamento estetico che portò ad un cambio del frontale che da quattro fari passò a due, assumendo la fisionomia che sarebbe rimasta invariata fino al 1990. Altre modifiche apportate alla struttura dell’auto consentirono di ampliare il bagagliaio. Nel 1973, si decise di porre fine ai problemi di alimentazione che continuavano a perseguitare gli acquirenti della V8 sostituendo il sistema di iniezione con 4 carburatori doppio corpo Weber che finalmente resero giustizia allo splendido 5,3 litri V8. In termini di numeri le prestazioni rimasero pressoché invariate ma la guidabilità dell’auto crebbe a dismisura. In una prova del settembre 1973 la rivista Motor raggiunse con la V8 a carburatori e cambio manuale la velocità massima di 250 kmh mentre l’accelerazione da 0-60 mph fu di 5,7 sec. (da 0-100 kmh in 6,1) i 400 metri furono coperti in 14,1 ed il chilometro in 25,2. Infine la ripresa da 60-120 kmh registrò il valore di 12,3 secondi. L’autore della prova su strada ebbe modo di scrivere “Quello che i dati non riescono a rappresentare è che ora l’auto tira senza incertezze da 600 giri/min anche con acceleratore parzializzato, ciò che assolutamente non faceva prima”. Ma la qualità maggiore della V8 era che, nonostante il peso rilevante (1952 kg in assetto di prova) aveva un handling assolutamente eccezionale grazie anche alla servoassistenza dello sterzo che, a differenza di altre auto dell’epoca, era in grado di mantenere un’elevata sensazione di controllo della macchina. L’altro motivo della qualità su strada dell’auto era ovviamente la raffinata geometria delle sospensioni. “L’entrata in curva a media velocità avviene con un rassicurante leggero sottosterzo, accelerando l’auto adotta un assetto neutro appoggiandosi fermamente sulle ruote posteriori. Rilasciando l’acceleratore nel mezzo di una curva si ha lo stesso rassicurante effetto, l’auto chiude la curva con l’anteriore in maniera graduale e controllabile. Naturalmente l’accelerata in piena potenza in una curva stretta porta ad un allargamento della coda ma la transizione al sovrasterzo avviene sempre in modo dolce e controllabile anche in caso di un uso brutale dell’acceleratore”. Nel 1974, a seguito della crisi energetica la situazione finanziaria della casa automobilistica si fece insostenibile e dopo essere praticamente fallita, fu acquisita da due uomini d’affari americani, Peter Sprague e George Minden che ripianarono gli ingenti debiti e, con l’aiuto di altri soci britannici, ricapitalizzarono la società. Nel 1975, quindi l’Aston Martin, che per un breve periodo aveva chiuso i battenti, riprese a costruire la V8 apportando al telaio alcune lievi modifiche per rendere gli interventi di manutenzione più agevoli. A questo punto credo sia doveroso parlare del processo produttivo di questa fantastica supercar costruita totalmente a mano nella piccola fabbrica di Newport Pagnell. Dopo la ristrutturazione seguita al fallimento della società, la fabbrica impiegava 230 dipendenti (rispetto ai 490 pre-fallimento) che sfornavano in media 5 auto a settimana, anche se per costruire una V8 da zero si impiegavano ben cinque mesi! Il processo produttivo partiva infatti da un foglio di acciaio che veniva lavorato per costruire il pianale al quale veniva saldata una sovrastruttura anch’essa in acciaio. Le varie parti venivano tagliate e saldate tra loro a mano con una saldatrice ad arco. Una volta finito, lo chassis passava al reparto ispezione dove le operazioni di saldatura venivano completate e, in caso di esito positivo veniva trasferito al reparto verniciatura. Qui il telaio subiva un trattamento antiruggine e una rifinitura con vernice nera. Nel frattempo abili operai battilastra avevano creato i pannelli di alluminio della carrozzeria tramite l’utilizzo di dime di legno. Dopo aver assicurato i pannelli al telaio tramite rivetti, l’auto veniva verniciata a mano con almeno venti (si, avete letto bene) strati di vernice, ognuno dei quali veniva cotto in forno! Nel frattempo si procedeva a costruire il motore. Gli addetti a questo compito nel 1975 erano tre operai ognuno dei quali era in grado di costruire da solo l’intero propulsore partendo dal nudo monoblocco, dopo non meno di 55 ore di lavorazione. Conosciamo anche i nomi di tali artisti della meccanica che, dopo aver terminato la lavorazione, applicavano al motore una targhetta con le loro generalità e l’anno di costruzione: Fred Waters, Sid King e Fred Osborne. Successivamente il motore veniva montato sull’auto che nel frattempo era stata abbigliata con il resto della meccanica, anche questa tutta realizzata a mano nello stabilimento, per poi passare al reparto finitura dove venivano montati “with painstaking thoroughness” gli arredi interni. Una volta che l’auto era completata, venivano aggiunti i fluidi al motore e montati un sedile ed uno sterzo di prova per l’effettuazione dei test su strada. La realizzazione di tale compito era affidata ad un team di quattro tester che guidavano l’auto sulle strade nei dintorni della fabbrica per almeno 50 miglia (80 km), che potevano arrivare a 120 (193 km) qualora fossero riscontrate anomalie. Una volta completata questa fase, l’auto veniva controllata per l’ennesima volta, eventuali errori corretti e, ove necessario, riceveva un’ulteriore mano di vernice! Possiamo a questo punto giustificare il prezzo della V8 che, in Inghilterra, nel 1975 era di 15.000 Sterline, pari a circa 21 milioni di Lire. Un prezzo abbastanza competitivo se confrontato con quello della Ferrari BB che all’epoca costava in Italia circa 23 milioni e mezzo, nonostante in quel periodo la V8 non fosse importata nel nostro Paese. Nel 1977 la gamma della V8 si amplia con la versione Vantage che, benché i dati di potenza e coppia continuassero a non essere dichiarati, era accreditata di oltre 400 bhp. Tale incremento era ottenuto attraverso l’utilizzo di carburatori da 48mm al posto di quelli convenzionali da 42, l’adozione di valvole dal diametro maggiorato, di alberi a camme dal profilo più spinto e da collettori di aspirazione di diverso disegno. Provata da Autocar nell’aprile del 1977 la V8 Vantage raggiunse le 60 miglia da fermo in 5,4 secondi, e coprì il chilometro in 25,2 secondi. Valori solo leggermente migliori rispetto alla V8 normale. La velocità massima, invece, crebbe in maniera considerevole fino a raggiungere i 273 kmh, un dato sicuramente importante per un’auto che pesava circa 2 tonnellate in ordine di marcia e che le valse l’appellativo della “più veloce quattro posti del mondo”. Esteticamente la Vantage era caratterizzata dagli spoiler anteriore e posteriore, dalla calandra completamente chiusa ed in tinta con la carrozzeria e dal rigonfiamento sul cofano anteriore chiuso nella parte anteriore. Nel 1978 vennero introdotte due importanti novità: in primavera il lancio della versione convertibile, denominata Volante, inizialmente dedicata al mercato USA in quanto richiesta a gran voce dagli importatori e, a partire dal 1979, disponibile anche per il mercato interno. Ad ottobre del 1978, invece, al salone di Birmingham viene presentata la quarta serie della V8 che ricevette numerose modifiche sia alla linea della coda, che ora incorporava uno spoiler, sia agli allestimenti interni che diventavano ancora più lussuosi con l’adozione di materiali di alta qualità come la radica di noce che ora ricopriva tutta la plancia. Questa serie è conosciuta dagli appassionati come “Oscar India”, dalle iniziali del progetto di rinnovamento che era denominato October Introduction (O.I.). Altre minori modifiche riguardarono la riduzione e chiusura del rigonfiamento sul cofano motore per migliorare la visibilità anteriore e l’adozione di due fari supplementari sulla calandra. Va infine segnalata l’adozione di un nuovo sistema di climatizzazione che finalmente risultava essere efficace ed all’altezza del prezzo dell’auto. Da questa serie in poi la V8 fu prodotta prevalentemente (ad eccezione di 25 esemplari) col cambio automatico Chrysler Torqueflite a 3 marce, mentre la Vantage continuò ad essere allestita esclusivamente con il cambio meccanico. Nel 1980 la V8 subì alcuni miglioramenti, dall’adozione di una frizione automatica a tamburo che bloccava il convertitore di coppia a velocità comprese tra le 45 e le 80 miglia orarie ed a marcia superiore inserita, all’adozione delle valvole maggiorate e degli alberi a camme della Vantage, fino al rapporto di compressione leggermente più elevato (9,3:1). La casa inoltre, pur continuando a non dichiarare i valori potenza e coppia faceva sapere che ora il picco di potenza si raggiungeva ad un livello inferiore di 1000 giri rispetto alla precedente versione e che la curva di coppia era praticamente piatta tra i 2000 ed i 4000 giri minuto. L’auto non subì ulteriori modifiche di rilievo fino al gennaio 1986 quando al Salone di New York venne presentata l’ultima serie, equipaggiata con un sistema di iniezione elettronica Weber-Marelli che consentì l’eliminazione del rigonfiamento sul cofano anteriore. Contrariamente a quanto successo con le versioni precedenti in questo caso la potenza venne dichiarata essere pari a 293 CV per le V8 (sia Coupé che Volante) e 400 CV per la Vantage che però mantenne l’alimentazione a carburatori. A partire da questo anno la Vantage fu prodotta anche con carrozzeria Volante. Chi ha letto altri miei scritti sa che mi piacciono molto i confronti, quindi vorrei chiudere questo scritto confrontando le prestazioni della V8 Oscar India con quelle della coeva Ferrari 412. Due auto basate sulla stessa concezione di granturismo, entrambe con cambio automatico a tre marce (la Ferrari però adottava un GM Turbo Hydra-Matic) entrambe estremamente potenti e con quattro posti. La Ferrari montava un motore a 12 cilindri a V, ultimo retaggio dei grandi V12 Ferrari a 60° progettati negli anni ’60 da Gioachino Colombo che, partito da 4,3 litri di cilindrata nel 1973 era arrivato alla soglia dei 5 litri in quest’ultima versione. La potenza era di 340 CV con una coppia massima di 451 Nm a 4200 giri. Numeri importanti che, teoricamente, non saremmo in grado di confrontare con quelli della V8 in quanto non ufficialmente dichiarati. In realtà però, all’inizio degli anni ’80 l’Aston Martin tornò ad esportare in Europa le proprie auto e, per far fronte ad una legge federale tedesca, dovette dichiarare (ma lo fece solo per il mercato tedesco) i valori di potenza e coppia della V8. I valori erano quindi i seguenti: 306 CV di potenza massima a 5000/5500 giri e 431 Nm di coppia massima tra 2000 e 4000 giri. A questo punto possiamo dire che la potenza specifica dell’Aston, non eccezionale, era inferiore a quella della 412 (60 CV/L contro i 69 della Ferrari). Oltre a ciò occorre rilevare che pur essendo il peso in prova della Ferrari (2063 kg) superiore a quello dell’Aston (1977 kg), il rapporto peso/potenza era anch’esso leggermente favorevole all’italiana: 6,07 contro 6,18 Kg/CV. Viste queste premesse sembrerebbe non esserci quasi partita tra le due auto ma, come vedrete i dati saranno in qualche misura sorprendenti. Le rilevazioni provengono, per la Ferrari, da Quattroruote dell’agosto 1988 mentre per l’Aston dalla rivista Motor di maggio 1985 che pubblicò i valori sia in miglia che in chilometri, permettendo così una piena confrontabilità con l’auto italiana. Come al solito lascio la parola ai numeri: Aston Martin V8 Ferrari 412 Velocità massima 237,3 kmh 253,4 kmh Accelerazione (secondi) 0-40 2,2 2,8 0-60 3,5 4,5 0-80 5,1 6,3 0-100 7,0 8,2 0-120 9,5 11,0 0-140 12,5 14,1 0-160 16,5 18,1 0-180 21,5 - 0-200 28,3 30,5 400 metri da fermo 15,1 15,9 1 chilometro da fermo 27,2 28,3 Ripresa (l’Aston Martin da 60 kmh) 70-80 1,4 1,4 70-100 3,5 4,2 70-120 6,0 7,0 70-140 9,5 10,0 A parte la velocità massima, che premia la Ferrari, l’Aston ha prestazioni superiori sia in accelerazione che in ripresa. Quest’ultima, poi, è assolutamente strabiliante anche per un’auto con cambio automatico. Il tempo da 60-120 in 6 secondi rivela che la V8 doveva avere un kick down letteralmente fulmineo. Per accorgersene basta paragonare questo tempo con quello fatto registrare dall’automatica più brillante provata all’epoca da Quattroruote, la Mercedes 560 SEL, che da 70-120 impiegava 5,4 secondi. Chiudo con il dato del consumo, non rilevato da Quattroruote per la Ferrari, mentre per quanto riguarda la V8, nonostante la casa costruttrice dichiarasse che questa nuova versione era più economica del 20% rispetto alla precedente, la rivista Motor rilevò un consumo medio di 14 miglia per gallone che equivalgono a 5 km al litro scarsi… Decisamente l’economia non era il punto forte dell’Aston V8. Spero che questo mio scritto vi abbia interessato facendovi scoprire un’auto eccezionale ed esclusiva poco conosciuta nel nostro Paese in quanto estremamente rara. Un ringraziamento a chi ha voluto leggermi.
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