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  1. TRANSAMAZZONICA '80 Di Gianni Marin Hanno collaborato Carlo Massagrande (rilevazioni tecniche) Bruna Marin (parte turistico-illustrativa) Vanni Belli (servizi fotografici) Un'ora qualsiasi, di un giorno qualsiasi, di una settimana qualsiasi. Anche per me è l'ora del passeggio; quello che al sud si chiama “struscio” e qui, a Milano, si dice “andar per compere”. È il solito cabotaggio del sabato: i dischi, i dolci della domenica, la ricerca di qualche buon film. La zona è la stessa: corso Venezia, piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele, via Montenapoleone. E tutte le viuzze interne della “Milano-bene”, fra cui via della Spiga che sfocia in corso Venezia. All'angolo una importante agenzia di viaggi. In una delle vetrine uno stupendo manifesto pubblicitario. È un invito a visitare il Brasile attraverso una fotografia aerea d'effetto. Una specie di serpente di terra rossa che si snoda senza testa e senza coda all'infinito, in una verde distesa di foresta. Sembra quasi che un colpo di spada abbia squarciato, mettendole a nudo, le viscere rosseggianti della natura. I miei viaggi nascono tutti da stati emotivi ed era quindi logico che una fotografia del genere scatenasse la mia fantasia. Con i raid di Gente Motori abbiamo percorso un po' tutte le strade d'America, ma erano state avventure abbastanza semplici, faticose fin che si vuole, ma tutte condotte a termine in ambienti sufficientemente progrediti e civilizzati. Ma l'Amazzonia, proprio a questa regione del Brasile si riferiva la fotografia che ho descritto più sopra, era una cosa nuova, già psicologicamente carica di avventure, piena di leggende e di fantasie, “vista” solo sui libri dei grandi viaggi, ancora misteriosa benché l'uomo sia ormai giunto quasi alla boa del ventesimo secolo. Dovevo andarci con la mia solita équipe; pochissime persone affiatate, addestrate, pronte a sacrificarsi in ore e ore estenuanti di guida, pronte a reprimere gli inevitabili momenti di ira e di scoramento, quando cala la sera e si fa sentire il sonno ma non ci si può fermare, quando lo stomaco reclama il cibo ma bisogna continuare, quando si ha sete ma l'acqua pulita è finita e non ci si può fidare di quella che l'ambiente offre. L'Amazzonia si, ma quale strada scegliere? Con quali automobili andarci? In quale periodo? Cerco notizie sulla Transamazzonica, la “BR 406”, la prima grande arteria i cui lavori hanno avuto inizio nel settembre del 1970. Essa “avrebbe” dovuto collegare l'oceano Atlantico al Pacifico, unire Joao Pessoa e Recife a Rio Branco e Cruzeiro do Sul (poste ai confini con il Perù e la Bolivia) per poi proseguire in territorio peruviano. Cinquemilacinquecento chilometri complessivamente, di cui 3300 nella foresta amazzonica. Un'opera che ha richiesto la costruzione di oltre duecento ponti e che è costata qualche cosa come trecento miliardi di lire italiane. Della Transamazzonica in Europa si è favoleggiato. Si è parlato come di un'impresa titanica, di zone nuove aperte allo sfruttamento minerario, agricolo e industriale, di popolazioni tolte da un millenario abbandono. Ebbene: di quei 3300 chilometri di lavoro sovrumano, dove il lavoro nel periodo secco (da ottobre a febbraio) avveniva senza soste, ventiquattro ore su ventiquattro, dove in più punti è stato necessario stendere chilometri e chilometri di fogli in plastica per proteggere il fondo dall'erosione delle piogge, dove gli uomini addetti ai lavori hanno dovuto affrontare (e molti ci hanno rimesso la pelle) il pericolo delle malattie tropicali, il tormento degli insetti, gli attacchi degli animali feroci, l'ostilità degli “indios”: ebbene dicevo, di questi 3300 chilometri ormai terminati oggi ne “sopravvivono” soltanto duecento. È stata la grande rivincita della natura. L'uomo l'ha violentata, l'ha mutilata, ha tentato di cambiarne il ciclo e il corso, ma la natura è più forte dell'uomo: ha fortificato le radici dei grandi alberi che sprofondate nell'humus sono riemerse sul nastro stradale sconvolgendolo mentre i rami, le liane, le “barbe” della foresta tropicale invadevano tutto, cancellavano, riconquistavano quel posto che dal momento della creazione era stato loro. Il sogno del tecnico tedesco Friedrich Hopke (era alle dipendenze del Dipartimento stradale del Parà) che aveva vagheggiato una grande via di comunicazione che unisse gli estremi navigabili dei grandi affluenti di destra al Rio delle Amazzoni è così miseramente naufragato, assieme a quello di unire anche il Nord est arido e sovraffollato all'Amazzonia, ricca di acqua e scarsamente popolata. Scartata la Transamazzonica classica, dovevo cercare un'altra strada nell'ambito di quel programma, in parte molto utopistico, varato dal SUDAM, che prevedeva di costruire complessivamente oltre dodicimila chilometri di strada che avrebbero dovuto tagliare l'Amazzonia in senso longitudinale e verticale. Una di queste, realizzata da reparti dell'esercito “dovrebbe” congiungere Manaus a Santa Elena de Uaren, posto di confine fra Brasile e Venezuela. Ho scritto “dovrebbe”, poi vi spiegherò perché Si tratta insomma di una Transamazzonica nord-sud e viceversa che prosegue poi in territorio venezuelano. Il tratto venezuelano è stato tracciato dal “battaglione di ingegneria” comandato dal generale Joan Kavanang Ilaramendi di origine inglese nei lontani anni '58-'59. Lavori più seri sono stati poi compiuti nel 1972 dall'allora comandante del “battaglione di ingegneria”, tenente colonnello Cajigal, attualmente promosso generale. Ed ecco perché ho scritto “dovrebbe”. In effetti, e scrivendo questo anticipo un po' le notizie successive, ma ciò è necessario per meglio inquadrare il raid di Gente Motori, il tratto brasiliano non esiste come strada vera e propria come la si intende all'europea, mentre quello venezuelano da El Dorado (ultima prigione di Henri Charrière, l'autore di “Papillon”) è un tratturo, interrotto in più punti, quasi cancellato dalle torrenziali acque equatoriali, franato in più punti, regno sovrano di animali, foreste ed eventi naturali. Ma chi vi racconta questa storia sapeva ben poco di tutto questo. In testa avevo soltanto la foto dell'agenzia turistica vista a Milano e il richiamo di un mondo sconosciuto, tutto da scoprire. Forse una reazione naturale al mondo dei motori al quale quotidianamente mi dedico. Ebbene, vista l'impossibilità di percorrere la Transamazzonica in senso longitudinale, ho deciso di puntare su quella nord-sud prendendo come “capolinea” di partenza Caracas capitale del Venezuela, e come stazione di arrivo in Brasile il capoluogo dell'Amazzonia: Manaus. Rimaneva il problema di scegliere le automobili. Caracas Ho preso in esame i modelli delle varie Case e, senza sciovinismo da parte mia e del giornale che dirigo, ho deciso di puntare ancora una volta sulla Fiat Ritmo nella versione “65” con motore di 1300 centimetri cubici di cilindrata, lo stesso modello cioè che avevo utilizzato per il raid “Montreal-Miami” degli inizi del 1979. E ciò avveniva con uno scopo ben preciso. Come i lettori ricorderanno, allora vennero superate condizioni meteorologiche infernali che avevano raggiunto il loro culmine nei trentacinque gradi sotto lo zero e nella bufera di neve (da vent'anni non se ne verificava una di simile) da Washington in giù, nel Nord Carolina, nel Sud Carolina, nella Georgia. Andando in un Paese come l'Amazzonia avevamo la possibilità di sfruttare condizioni ambientali completamente opposte, temperature che già sulla carta si annunciavano di ben quaranta-quarantacinque gradi sopra lo zero, la possibilità di incontrare i famosi acquazzoni violentissimi dell'Equatore e a cui si poteva aggiungere, in contrapposizione alle veloci autostrade canadesi, il tormento rappresentato da strade in terra battuta (e che credevo fossero soltanto tali), quindi tanta polvere e molti sassi. Da tutto questo poteva quindi nascere un confronto estremamente interessante e un giudizio su di una vettura che, nata con i galloni dell''Auto anni '80', ha avuto un avvio difficile, almeno sul mercato italiano. Ho scelto dalla produzione normale due Fiat Ritmo nell'ultima versione, cioè quelle già dotate di servofreno e di ventilatore centrifugo che assicura un maggior silenzio e una maggiore portata d'aria. Vi ho fatto apportare qualche leggera modifica; piccole cose, mentre tante altre che sarebbero state necessarie date le condizioni delle strade sono rimaste soltanto nel regno dei sogni e dei desideri. Ho fatto sostituire le molle anteriori delle sospensioni, facendo montare quelle delle Ritmo 75 con cambio automatico, vettura che essendo più pesante ha richiesto questa modifica. Le due “Ritmo Amazzonia” (così le ho battezzate) erano più alte di circa due centimetri. È stato anche aumentato lo spessore del tampone in gomma degli ammortizzatori (ad anello interno) in modo da guadagnare in altezza circa 25 millimetri. Due sole le protezioni vere e proprie: una anteriore, una specie di slitta in alluminio dello spessore di cinque millimetri che difendeva motore, cambio e parte delle sospensioni (era stata ancorata alla traversa anteriore e alla scocca); una posteriore in lamiera d'acciaio con interposto materiale isolante del tipo Septun. Per le gomme avevamo ancora una volta optato per i Pirelli P3 tubeless ma con camera d'aria aggiunta per evitare l'afflosciamento del pneumatico in caso di buche e quindi urti e ammaccature del cerchione. Misura 165/70 SR 13, cioè più larghi dei 145 SR 13. Il diametro dei due tipi di pneumatici è uguale, ma essendo più larga la superficie d'appoggio, il peso veniva meglio ripartito e si guadagnava naturalmente in tenuta di strada. In conclusione posso dire che per le auto si è trattato più di una messa a punto che di una preparazione tipo “Sahara” o fuoristrada, mentre per le gomme ci si è avvalsi ancora una volta di un modello qualsiasi, montato normalmente in serie, mentre, giudicando con il senno di poi, molto più opportune sarebbero state le gomme del tipo tassellato. La Publimais di Torino ha provveduto come al solito ad “addobbare” con le nostre scritte le due Ritmo 65, che se ne sono partite via mare, per Caracas, punto di partenza della “Transamazzonica '80”, il nuovo raid di Gente Motori. Caracas Venti e più giorni di viaggio e poi lo sbarco a Caracas con il quasi contemporaneo arrivo dei quattro avventurosi, entusiasti, ben preparati fisicamente e psichicamente ma ingenui, perché nessuno di essi conosceva esattamente lo stato delle strade. Una situazione che si sarebbe rinnovata continuamente, perché chiedere informazioni agli abitanti sulle condizioni delle strade è sempre stato perfettamente inutile. Le risposte erano tutte fantasiose, approssimative e il più delle volte, anche per gli abitanti delle zone attraversate, soltanto “per sentito dire”. A Caracas “consiglio di guerra”. Dobbiamo stabilire le tappe, tenendo presenti i pochi centri abitati che dovremo attraversare e le condizioni ambientali con autentici pericoli per la nostra incolumità. Come, ad esempio, l'attraversamento della riserva degli indios Waimiri Abonari, 325 chilometri prima di Manaus, per una lunghezza di 120 chilometri, tuttora selvaggi e il cui ingresso e uscita sono piantonati da reparti dell'esercito che intervengono nel caso in cui questi rischiosi 120 chilometri non vengano percorsi in un tempo ragionevole. Normalmente le auto vengono fatte marciare in colonna e viaggiano a finestrini completamente chiusi. Gli indios Waimiri Abonari hanno già “fatto fuori” non meno di trecento bianchi che si erano azzardati ad attraversare la zona. L'ultimo, mi raccontavano, in un modo piuttosto originale: costringendolo a mangiare una banana dietro l'altra. È morto per ingozzamento e asfissia. Cinque le tappe presumibili: da Caracas a Porto Ordaz, da Porto Ordaz a La Clarita (Les Clarines), da La Clarita (Les Clarines) a Santa Elena de Uaren, punto di confine fra Venezuela e Brasile, da Santa Elena de Uaren a Boa Vista e infine da Boa Vista a Manaus, una tappa lunghissima quest'ultima di oltre ottocento chilometri che ci costringerà a rimanere al volante per quindici ore e cinquantatré minuti primi, su di un tracciato impossibile anche alle capre ma su cui, a parte gli indios già citati, non esiste praticamente alcun villaggio con le caratteristiche per essere definito tale che ci consentisse una sosta con un minimo margine di sicurezza. Caracas: dalla capitale del Venezuela ha avuto inizio l'avventura amazzonica dei nostri quattro inviati sorretti dalla forza più grande, quella dell'incoscienza. È la metropoli che ha visto muovere i nostri primi passi con le due Ritmo 65 che avevamo trovato in ottimo stato dopo circa un mese di traversata atlantica. C'era un solo neo: erano state rubate le radio per le comunicazioni dirette che montiamo sempre per evitare di perderci. Le abbiamo ricomperate: poco male. Tutto il resto è a posto e Carlo Massagrande inizia il suo doppio lavoro: pilota dell'auto color rosso dall'inizio alla fine, nonché rilevatore di dati, di situazioni, di appunti tecnici. Con una meticolosità impressionante. I suoi primi rilievi sono: i pieni di carburante, la pressione delle gomme, il funzionamento delle radio, la temperatura esterna, il grado di umidità atmosferico, ecc. ecc. Proseguirà poi con lo stato delle strade, i tempi di percorrenza, le ore di sosta per foto e altro, le medie, le distanze da... e via dicendo. Con lui viaggerà Vanni Belli, un'habitué paziente e preciso di queste nostre avventure; con me mia moglie, alla quale è affidata la contabilità, la dispensa di bordo, le annotazioni di viaggio su cui poi nasceranno le didascalie delle fotografie e queste mie note. Caracas Dedichiamo due giorni alla parte fotografica di Caracas, capitale di questo immenso paese che compre una superficie di 912.000 chilometri quadrati ma sul quale abitano soltanto dieci milioni e mezzo di persone. Caracas, con i suoi due milioni di abitanti è una città allucinante. Nata dalle rovine di due terremoti, quello del 1755 e quello del 1812, Caracas è diventata una megalopoli. È stato costruito un aeroporto ai bordi del Mar dei Caraibi, che però è stato quasi subito distrutto per lasciar posto ad un altro, fantascientifico. Sono stati abbattuti dei grattacieli per costruirne altri ancora più alti, è stato realizzato nel cuore della città il Centro Bolivar, due grattacieli gemelli uniti da un vastissimo fabbricato adibito a uffici sotto il quale scorre l'Avenida Bolivar. Il centro storico, quello del passeggio, delle boutique, dei negozi denominato Saban Grande, non esiste quasi più: è stato smantellato per lasciar posto ad altre strade e ad altri grattacieli. Le strade sopraelevate che si intersecano, si avviluppano l'una con l'altra non si contano. Dall'Hotel Tamanaco, dove alloggiavamo nei giorni di sosta, giunge un continuo rumore di automobili. Sono migliaia, decine di migliaia di vetture continuamente in movimento a qualsiasi ora del giorno e della notte. D'altronde il problema del prezzo della benzina non esiste: la normale dal bassissimo numero di ottani (60/65) costa 30,26 lire al litro; quella Super 69,30 lire al litro. Il gasolio ha un prezzo medio di 42,75 lire al litro. È la civiltà del petrolio in tutta la sua esplosione, dato che non bisogna dimenticare che la massima ricchezza venezuelana è costituita proprio dal petrolio con 116.820.000 tonnellate estratte (ultimo dato ufficiale) nel 1977, che pongono il Venezuela al quinto posto fra i grandi Paesi petroliferi. Esso viene estratto dai bacini di Maracaibo, Falcòn, Barinas e Maturìn. Ma di fronte a questa esplosione di ricchezza non bisogna rimanere abbagliati. Bisogna vedere anche l'altra faccia di questa città. Caracas - Ai confini della civiltà Quella delle “bidonville”, le stesse che si trovano a Rio de Janeiro e in altri Paesi sudamericani dove vengono chiamate “favelas” e che qui in Venezuela sono battezzate “los barrios”. Quello di Sabana Grande è immenso. Se lo si osserva dal basso sembra un fitto grappolo di case lassù sulla collina: di giorno mostra tanti buchi neri al posto delle finestre, di notte è un luccichio di tanti lumini traballanti. Perché a Sabana Grande come negli altri “barrios” la luce elettrica non esiste, come non esistono l'acqua e i servizi igienici. È questo contrasto tra i grattacieli di Caracas moderna e la povertà dei “barrios” che lascia tutti perplessi. Ma il viaggio sta per cominciare. È ora di iniziare a raccontarvi la nostra avventura e quella delle due Ritmo 65. Fine prima parte
  2. Passata qualche settimana dall'ultimo upload riguardo i raid di Gente Motori (che son tantissimi, motivo per cui col tempo riprenderò la serie saltando però avanti e indietro, in base a ciò che mi capita fra le mani) torno ora, finalmente con un po' di tempo libero, ad ammorbarvi con le mitiche avventure vissute da Gianni Marin in giro per il mondo, al volante di vetture di ogni tipo, epoca e marca. Lo stile del mitico Gianni lo conoscete già. I suoi articoli forse non erano i primi da prendere in considerazione se l'intento era quello di analizzare in maniera fredda e imparziale una vettura (specialmente quando era italiana) perchè i complimenti erano sempre tanti, le critiche poche e fra le righe si leggeva sempre l'intenzione di far contenti tutti , ma non c'è dubbio che se non ci avesse pensato lui, a trasformare questi "sogni" in realtà, se avessimo dovuto affidarci soltanto al freddo, rigoroso Quattroruote, queste avventure che restano nella storia dell'auto italiana non le avremmo mai vissute, seppur indirettamente. Restano quindi oggi - per chi li ha in casa, come il sottoscritto , e per chi naviga in posti ove il sottoscritto si lascia andare su pagine e pagine di ricordi - dei documenti eccezionali, testimoni di un mondo dell'auto, specialmente quella italiana, che non tornerà più. Va bene, termino qui la pomposa introduzione: scusatemi, ma quando guardo le foto di auto italiane in luoghi in cui probabilmente non sarebbero mai arrivate se non fosse stato per lui, sento il desiderio di celebrare ancora una volta il lavoro di quel dinamico, furbacchione, mondano e affabile "diretùr". Grazie, Gianni. PONY EXPRESS RAID DUE DELTA SUI SENTIERI DEI COWBOYS DI “OMBRE ROSSE” Di Gianni Marin Collaborazione tecnica: Carlo Massagrande Ricerche storiche e turistiche: Bruna Marin Servizi fotografici: Vanni Belli “Cercansi giovani, magri, robusti, tenaci, che non abbiano superato i diciott'anni d'età, esperti cavalieri, disposti, ogni giorno, a rischiare la vita. Sarà data la precedenza agli orfani.” Cartelli con questo annuncio comparvero nelle città del Sud degli Stati Uniti nel marzo del 1860. Aveva provveduto a diffonderli la “Pony Express Company”, una società che si proponeva di avviare un collegamento postale tra St. Joseph, nel Missouri e Sacramento, in California, dalle cui banchine la posta sarebbe stata poi imbarcata alla volta di San Francisco. Come molte altre conquiste e avventure umane, il “Pony Express” (questa la denominazione ufficiale dello storico servizio di posta) nacque dal senso di frustrazione e abbandono che aveva colpito i pionieri spintisi sino all'Oceano Pacifico con il miraggio dell'oro. Già nel 1860 circa mezzo milione di persone viveva oltre le Rocky Mountains, la maggior parte nell'Oregon e in California. L'esaltazione per l'oro trovato e per le magnifiche e ricche scoperte non avevano sopito quell'ideale cordone ombelicale che legava queste genti alle loro terre e agli affetti lasciati. C'era il desiderio di avere notizie da casa, dei propri cari, di sapere cosa stava succedendo nel loro paese lontano là, a est del fiume Missouri. 1980 miglia, cioè 3168 chilometri, ottanta cavalieri, 429 cavalli: questo, in cifre, il “Pony Express”, il cui primo cavaliere prese il via da St. Joseph il 3 aprile 1860 con la sacca della posta. Nei punti più difficili uomini e cavalli venivano sostituiti anche ogni dieci miglia; ma tutto restava estremamente arduo e infido. Tra l'altro, prima che il “Pony Express” compisse due mesi di vita, una guerra indiana esplose lungo centinaia di miglia di percorso nello Utah: vennero distrutti i depositi e le stazioni di riposo e diciassette dipendenti della “Pony Express Company” vennero uccisi. Il più giovane non aveva ancora compiuto quattordici anni. Si può ben capire come questi giovani cavalieri fossero personaggi di tempra formidabile. Tra gli altri c'era anche un certo William F. Cody, di quindici anni, che proprio con il “Pony Express” firmò il primo capitolo delle sue imprese leggendarie, quelle di “Buffalo Bill”. Un altro postino, James Butler, si guadagnò il soprannome di “Wild Bill” (Selvaggio Bill) in occasione di un violento scontro con gli indiani. “Eccolo, sta arrivando. Vola al limite della prateria, un punto nero che si staglia contro il cielo, come un piccolo uccello che abbia perso il suo stormo.” Sono parole di Mark Twain che mitizzano la figura di questi uomini e del loro servizio postale. Ma questa favolosa pagina del vecchio West durò soltanto diciannove mesi. Il cuore di un cavallo e il coraggio di un uomo nulla poterono contro l'avanzare della tecnica. Lungo la stessa strada percorsa dai cavalieri del “Pony Express” fu installato il primo servizio telegrafico intercontinentale. Fu una gara allo spasimo tra due squadre di tecnici: l'una partì dal Pacifico e puntò verso est, l'altra partì dal Missouri e puntò verso ovest. L'obbiettivo era quello di arrivare per primi a Salt Lake City, punto d'incontro a metà strada. Vinse la squadra che proveniva dal Missouri, che vi giunse il 18 ottobre 1861; quella proveniente dalla California arrivò sei giorni dopo. L'avvenuto collegamento fu festeggiato con l'invio di un messaggio al Presidente Abramo Lincoln. In pochi minuti un breve testo, contenente una professione di fede all'annessione della California agli Stati dell'Unione, attraversò quelle regioni che i cavalieri del “Pony Express” percorrevano in giorni e settimane. Il “Pony Express” era finito. Non gli restava che entrare nella storia, con i suoi William F. Cody, i suoi “Wild Bill”, i suoi Nick Wilson, non prima però di aver dato ai suoi ideatori fama e povertà: in diciotto mesi e mezzo essi chiusero il bilancio con 200.000 dollari di passivo. Centoventi anni dopo, nel mese di giugno del 1980, “pionieri” italiani non più giovani, certamente non magri, forse robusti, sicuramente tenaci, hanno voluto ripercorrere questo magnifico sogno di congiungere la strada, scegliendo la stagione più pericolosa per il caldo mortale delle regioni da attraversare e utilizzando due automobili che sul piano europeo rappresentano il meglio in fatto di stile e di tecnica, tanto da essersi aggiudicate il titolo di “vettura dell'anno” per il 1980. I non più giovani erano il sottoscritto e i componenti della solita collaudata équipe; le automobili: le Lancia Delta, che ancora non avevamo avuto occasione di provare su lunghe distanze, in condizioni ambientali particolari e sotto sforzo prolungato, condotte sempre al limite delle loro e delle nostre possibilità. E' nata così l'idea del “Pony Express Raid”; una denominazione piena di fascino, già in partenza avventurosa, eccitante proprio per la storia di cui vi ho raccontato una sintesi all'inizio. In redazione abbiamo scelto un tracciato che avrebbe toccato sei Stati americani: la Louisiana, il Texas, il New Mexico, l'Arizona, lo Utah e la California, con partenza da New Orleans e arrivo a San Francisco. Un totale di 5500 chilometri (il dato esatto risulterà alla fine 5537,400 km) da compiersi in otto giorni. Sulla carta tutto sembrava sì avventuroso ed eccitante, ma sostanzialmente facile. Avendo percorso l'Amazzonia da Caracas a Manaus con le Fiat Ritmo pensavamo di avere già raggiunto l'apice delle difficoltà ambientali. E gli Stati Uniti non presentavano certo i problemi amazzonici. Louisiana - Stadio "Superdome" Le avventure di guerra e morte del vero “Pony Express” appartengono alla storia: oggi vi sono autostrade, meravigliose strade statali, velocissime tangenziali per attraversare paesi e città. L'unico “intralcio” è rappresentato dalla Polizia statunitense, che colpisce severamente, e con ragione, chi supera i limiti di velocità. E noi, che negli Stati Uniti abbiamo viaggiato in auto svariate volte, ne sappiamo qualche cosa. Pensavamo quindi che sarebbero bastate un po' di resistenza fisica, nelle tappe più lunghe, la scrupolosa osservanza dei limiti e nulla più. Invece anche in questa occasione le nostre previsioni si sono rivelate troppo ottimistiche; soprattutto una cosa non avevamo ben valutata: il caldo. Un caldo che nel mese di giugno è divampato su tutto il Sud degli Stati Uniti, causando oltre duecento morti, innescando incendi paurosi (di uno siamo stati anche testimoni a El Paso, al confine con il Messico), uccidendo animali e piante, rendendo incandescenti paesi, cittadine, strade e autostrade. Già alla partenza da New Orleans avevamo avuto qualche temibile avvisaglia: 35 gradi all'ombra, con una umidità relativa intorno al 40-45 per cento. Una temperatura che è andata aumentando sempre più, fino a toccare, nel deserto dell'Arizona i 47 gradi all'ombra. Scritta così, sulla carta, questa cifra non può dare l'esatta idea di quel che significhi nella realtà; bisogna essersi trovati in una situazione del genere per poter capire appieno cosa sia il caldo. Non avevamo aria condizionata a bordo e abbiamo dovuto ricorrere agli espedienti più vari, fino al ghiaccio sistemato in sacchetti intorno al collo. Vanni Belli temeva che quel caldo potesse addirittura “sciogliere” le sue pellicole fotografiche. E poi vi era la fatica di ore e ore di guida: 15 ore e 02' nella terza tappa, da Sonora a Las Cruces; 14 ore e 33' nella quarta tappa, da Las Cruces a Kayenta; 14 ore e 27' da Kayenta a Phoenix, e così via. Mai un giorno di sosta o un'ora di riposo, sempre chiedendo il massimo alle due nostre meravigliose (oggi lo posso dire) Lancia Delta e a noi stessi, giunti stremati a San Francisco otto giorni dopo. Oltretutto, il passaggio repentino dalla fredda primavera-estate italiana alla torrida primavera-estate americana aveva ulteriormente ridotto le nostre risorse fisiche. Ma procediamo con ordine. Cominciamo dal momento della partenza, quando a New Orleans, dal locale concessionario Fiat entriamo in possesso delle due Lancia Delta che avevamo spedito dall'Italia via mare. Carlo Massagrande si accorge subito che qualche cosa non va. La Delta affidatagli non ha la sospensione posteriore a posto. La guido anch'io per qualche chilometro e mi rendo conto che effettivamente i rumori provenienti dal retrotreno non sono certo forieri di buoni presagi. Marcia indietro e ritorno dal concessionario. Mettiamo l'auto sul ponte e constatiamo che la vettura, durante il trasporto via mare, è stata evidentemente ancorata in un punto non idoneo a reggere gli sforzi di trazione conseguenti al rollio della nave. Esaminiamo quindi anche l'altra vettura ma scopriamo che in questa il danno è per fortuna minore. Per poter partire subito, l'unica soluzione è intervenire empiricamente; attendere l'arrivo dei ricambi necessari dall'Italia ci farebbe perdere troppo tempo. Carlo Massagrande non è d'accordo con questo genere di “far da sé” ma il mio dispotismo di capo prevale. Del resto, quello di arrangiarsi è sempre stato, volenti o nolenti, il nostro destino. E finora ci è sempre andata bene. Con un robusto bastone cerchiamo di raddrizzare ciò che si è piegato, ben consapevoli che così facendo la geometria delle ruote andrà a farsi benedire. Ma non c'è altro da fare. Lavoriamo qualche ora. La vettura ridiscende dal ponte e Carlo, sempre poco convinto, accetta di ripartire. Osservo la Delta da dietro: è leggermente fuori posto come assetto ma non sembra che la cosa sia grave. L'unico problema riguarderà il rilevamento del consumo dei pneumatici, i Pirelli P3 che sulla vettura di Massagrande (quella di color blu) denunceranno inevitabilmente una usura anomala. Prenderemo quindi per buoni solo i consumi rilevati sull'altra, quella rossa, guidata dal sottoscritto. New Orleans - Hotel Hyatt Regency New Orleans - "Piazza d'Italia" (vi chiedo scusa per la qualità delle immagini... ho fatto il possibile ma è un dato di fatto che Gente Motori fosse spesso stampato in maniera mediocre, e che questo rovinasse il bel lavoro realizzato da Vanni Belli) Otto mesi erano passati dalla presentazione della Delta e quindi era importante verificare subito alcuni aspetti di questa nuova Lancia. Premetto subito che avevamo optato per la versione da “un litro e mezzo”, quella più accessoriata (mancava soltanto l'impianto di condizionamento e quanto lo abbiamo rimpianto!). Inserita nel traffico americano, dove prevalgono ancora i grossi macchinoni e in cui si fanno sempre più numerose le auto giapponesi, la Lancia Delta spicca per i suoi caratteri somatici ben definiti, propri di una razza purissima. Giorgetto Giugiaro, un autentico mago dello stile, ha ancora una volta centrato l'obbiettivo. Quando vidi la Delta tanti mesi prima della sua nascita ufficiale, in verità mi lasciò perplesso. Era senza finizioni, senza modanature, quasi un manichino. Avevo avuto l'impressione di un qualche cosa di già visto, di già noto. Era una “Giugiaro” che mi ricordava altre realizzazioni dello stesso stilista. Poi è venuta la sua presentazione. La vettura mi è apparsa in una luce completamente diversa, l'ho vista dotata di personalità come ben poche altre. Quella prima volta mi ero evidentemente sbagliato. L'ho vista poi sulle strade europee, emergere nel traffico per eleganza e snellezza. La Delta è un prodotto indovinato a cui il mercato ha risposto adeguatamente. Ed eccola ora nel traffico americano, a confronto con i grossi “barconi USA”, che chiudono un'epoca e ne aprono un'altra. Grandi, ingombranti, arzigogolati, con tanti fregi, modanature, cofani imponenti; poi, quando ci sali sopra, con valigie da sistemare, ti accorgi come tutta quella esteriore ostentazione di spazio sia soltanto apparenza. Nella Delta non c'è nulla di apparente, c'è solo sostanza. Due taxi americani, dall'albergo all'aeroporto di New Orleans, per portare i cinque partecipanti al “Raid del Pony Express”; due Delta per attraversare con gli stessi uomini e le stesse valigie gli Stati Uniti: ma quanto più comfort, quanto più spazio a disposizione sulle vetture italiane. Allo svantaggio di un bagagliaio non eccezionale si può sempre sopperire con l'abbattimento di uno dei due schienali, (o magari di tutti e due) dei sedili posteriori. E allora sulla Delta si può trasportare di tutto, anche le ingombrantissime sacche da golf che avevamo portato da casa nella vana illusione di concederci qualche attimo di svago. Le finizioni interne non fanno una grinza e così pure quelle esterne. L'unico appunto che ci sentiamo di muovere riguarda la qualità dei tessuti: in condizioni climatiche come quelle da noi incontrate il panno dei sedili accentua la sensazione di caldo causando una maggiore sudorazione. Abbiamo dovuto ricorrere all'interposizione di asciugamani per dare un po' di sollievo alle parti a contatto con il sedile. Per il resto non vi è nulla da obbiettare. La plancia semplice e completa, con tutti gli strumenti a diretta portata di sguardo, i cassetti capaci, i boccagli per l'aerazione idonei ed efficienti in qualsiasi condizione ambientale (insufficienti solo nelle condizioni infernali in cui ci siamo trovati a vivere e a guidare). Ci inoltriamo in New Orleans, in quella che da sempre viene considerata la capitale del jazz. Ancora oggi il festival del jazz che vi si svolge ogni anno in aprile è un grande appuntamento musicale, oltre a essere una vera e propria sagra popolare in cui tutti, per nove giorni, vivono da protagonisti. Si tiene nel Fair Grounds Race Track, un vasto spazio erboso che sorge alle porte della città e che ospita abitualmente l'ippodromo, tra vecchie querce e laghetti costruiti dai francesi durante il periodo coloniale. Il ritmo crescente delle decine e decine di bande jazzistiche si fonde con il profumo delle magnolie (simbolo di questa città) e dei gamberi fritti. La città si scatena. Giungono al Fair Grounds Race Track i poveri che abitano nel quartiere di Algiers insieme ai ricchi che abitano la Bourbon Street, una strada famosa per i suoi locali notturni e per i bar dove ancora si può ascoltare dell'ottimo jazz. Vengono dimenticati i vecchi rancori razziali, quelli che vedono a tutt'oggi i n...i (ndGTC: ometto la n-word con la “g” che ai tempi veniva usata anche senza cattive intenzioni – compariva anche nelle vignette di Topolino - ma che oggi è giustamente vista in altro modo) banditi da certi luoghi e impiegati soltanto in lavori umili e pesanti. Meravigliosi pezzi di “ragtime” si fondono con il “boogie-woogie”, i “blues” con i “gospel”, con i “rhytm and blues” e con tutta quella jazzistica che proprio qui, nel distretto di Storyville a New Orleans, nacque agli inizi del Novecento. Con le due Lancia Delta anche noi ci avventuriamo in Bourbon Street, dalle case basse, con i balconi in ferro battuto e colonne all'ingresso: antiquari, negozi per turisti, tanti bar, cabaret e locali di strip-tease. Mi guardo attorno ed ecco spuntare un personaggio fantastico, che sembra uscire dalla storia del vecchio e originario dixieland, ai tempi in cui il jazz, una musica afroamericana, frutto dell'humus di una razza trapiantata a viva forza da un continente all'altro, rappresentava quasi una preghiera e un atto di rivoluzione assieme. Vecchio, nero, ballerino: aveva dato la vita per il jazz e la vita ora lo ripagava con povertà e privazioni. Al suono di un'orchestrina, Don Ellis, questo il suo nome, ci improvvisa un ballo. L'accompagnamento è perfetto; il violinista non è certamente Gatemounth Brown e il pianista non è Dave Brubeck; non c'è un chitarrista come B.B. King, o un vibrafonista come Lionel Hampton. Ma è come se ci fossero e Don Ellis balla, con il sigaro in bocca e un vecchio ombrello in mano, motivi che ricordano la sua giovinezza, quando lavorava per la grandissima Dixies Davis (tuttora sulla breccia a onta dei suoi ottantaquattro anni) o per l'ineguagliabile B.B. King. È l'occasione per Vanni Belli di scattare le sue fotografie, forse le più belle, le più umane. (fotografie che purtroppo non possiamo ammirare, perchè per chissà quale motivo al momento della "confezione" dell'articolo rimasero fuori dal corredo fotografico... tranne una che però fu pubblicata su due pagine, con Don Ellis piazzato proprio nel mezzo, quasi invisibile) Ma il tempo incalza. Dobbiamo completare la documentazione fotografica della “stazione di partenza”, da cui daremo inizio all'avventura che ci porterà nel giro di otto giorni da New Orleans a San Francisco, via Houston, El Paso, Albuquerque, la Monument Valley, il Grand Canyon, Phoenix, Los Angeles e la splendida, indimenticabile penisola di Monterey. Partiamo, lasciando alle nostre spalle New Orleans e puntando su Houston, dove abbiamo fissato la sede della nostra prima tappa. Fa caldo ma in modo ancora sopportabile. Lasciamo dietro di noi anche il Mississippi, il grande fiume che avevamo risalito in occasione di un nostro precedente raid. Complessivamente percorriamo 586,7 chilometri, impiegando dalla partenza all'arrivo 10 ore e 04', di cui 6 ore e 33' di guida effettiva. Per le soste (rifornimenti, fotografie, colazione) abbiamo perso 3 ore e 31 minuti. Carlo Massagrande, con la precisione che lo contraddistingue, mi comunica la media: 90,946 chilometri all'ora. Rapidamente calcola anche i consumi: la mia Delta, quella di color rosso, ha bruciato 51,40 litri di carburante; la sua, di colore blu, 48,60 litri. Veloce lavoro con la calcolatrice e stabiliamo che la Delta rossa ha percorso 11,589 chilometri con un litro; quella blu 12,257 chilometri. Il piede del “regolarista” Massagrande si è fatto sentire ancora una volta. Girare per Houston non un'impresa facile. La circolazione è caotica e, per la prima volta negli Stati Uniti, troviamo che le indicazioni stradali sono scarse, poco chiare. Fatichiamo un po' prima di trovare la strada che ci condurrà a Pasadena, al “Johnson Space Center”, dove la NASA ha fissato il suo quartier generale e dove Vanni Belli vuoi ripetersi in fotografie sensazionali, come quelle già scattate a Cape Kennedy nel nostro raid di un paio d'anni fa, quando da Montreal (in pieno inverno) siamo andati con due Ritmo a Miami. Il “Johnson Space Center” ci accoglie all'imbrunire, dopo che avevamo costeggiato la Galveston Bay, con i suoi pozzi petroliferi oceanici, visibili sullo sfondo ma troppo distanti per essere fotografati. Le ombre della notte sono già scese e quindi decidiamo di rimandare all'indomani ogni cosa. Andiamo a dormire; “mettiamo a letto” anche le due Lancia Delta che non hanno mai perso un colpo, che hanno assecondato benevolmente anche le repentine (e non sempre azzeccate) decisioni di un “capo” come il sottoscritto, soggetto a mutare opinione a ogni momento. Ma fra i due equipaggi regna l'affiatamento e finora tutto è andato sempre per il meglio. Fine prima parte
  3. Ed eccoci con un altro raccontino fresco fresco. Cioè, si fa per dire. Prima di tutto, fresco fresco non è, perchè i fatti sono avvenuti 45 anni fa. Poi, fresco fresco non è perchè non l'ho messo giù in questi giorni. Lo impacchettai anni fa*, prima della lunga pausa che mi presi perchè impegnato in altre cose. Nel ricominciare a raccontare queste vicende, mi trovai fra le mani per prime quella della Delta che avete già letto, e quella della Ritmo in Amazzonia che ho finito mezz'ora fa. Poi mi ricordai di questo, e andando a cercarlo lo trovai già "ritirato" nella cartella dedicata alla Fiat Ritmo, mentre i cosiddetti "lavori in corso" li conservo in un folder apposito. Vederlo lì mi fece pensare di averlo già postato tanti anni fa, e quindi mi buttai su Delta e Ritmo-Amazzonia. E invece, quando L'informatore ha riportato l'elenco dei raid già pubblicati, mi son reso conto di averlo trascritto e messo via, durante la "lunga pausa". Quindi... fresco fresco per me non è, ma per voi sì. Inoltre, lo definirei tale perchè... in quei giorni del 1979 Marin si trovò alle prese con un... leggero freschino. * ai tempi avevo confezionato un testo di tipo leggermente differente rispetto a quelli di questi giorni. Troverete qualche mio buffo commento, inserito nei punti in cui Marin prendeva una papera, oppure la scena mi faceva sorridere. Basta, vi ho ammorbato a sufficienza. IL RAID DEI 24 PARALLELI - DAL CANADA ALLA FLORIDA CON DUE FIAT STRADA di Gianni Marin in collaborazione con Carlo Massagrande fotografie Vanni Belli La traversata atlantica sta per terminare. Il DC10 dell'Alitalia si avvicina all'isola di Terranova; l'Oceano è in molti punti ghiacciato, qua e là navigano degli imponenti iceberg. Ecco lo stretto di Caboto, il golfo di San Lorenzo, Quebec. La voce della hostess: “Ci apprestiamo ad atterrare a Montreal. La temperatura a terra è di meno venticinque gradi centigradi”. Un brivido corre lungo la schiena. Pensiamo di aver frainteso, ma basta uno sguardo, che si scontra con quello degli altri passeggeri, per toglierci ogni speranza. A Montreal sono proprio 25° sotto zero. Ce ne rendiamo subito conto quando prendiamo posto sulle navette che collegano l'aereo con l'interno dell'aeroporto. Baveri alzati, colbacchi, fiato che si condensa in nuvolette simili alle folate di una pipa ben attizzata. “E' un freddo record”, dice il tassista che ci accompagna all'albergo. E dura da diversi giorni. “Meglio così”, continua, “fin che fa freddo non nevica”. La situazione insomma non è delle più allegre. Ci troviamo a Montreal per compiere uno dei nostri raid; ma le attrezzature se non sono proprio quelle di tutti i giorni (l'unica precauzione è stata quella di utilizzare delle tute termiche della ditta Benning di Thiene e degli scarponcini Lotto) certamente non sembrano le più adatte per una situazione così esasperata. Siamo qui per provare la Fiat Strada che il 6 gennaio la Fiat USA ha presentato a Las Vegas alla stampa locale. Gente Motori vi ha già mostrato la vettura in forma statica. Avevamo apprezzato le modifiche estetiche, avevamo giudicato gli aggiornamenti tecnici alle normative di antipollution e di sicurezza americane. Ma volevamo vederle e soprattutto provarle. E' così nato il “Raid dei 24 Paralleli”, da Montreal a Miami, per un totale di 3500 chilometri. Almeno sulla carta. E ancora sulla carta avevamo pensato di andare dal freddo al caldo, dall'inverno di Montreal al “quasi-estate” di Miami; il tutto però, come l'eroe manzoniano, “con judicio”. Invece, alla prova dei fatti, questo raid si è rivelato il più duro e probante test fra tutti quelli portati a termine da Gente Motori. I – 25° diurni di Montreal sono diventati 35 durante la prima tappa nelle ore serali e di primo mattino (le due Strada sono rimaste parcheggiate all'addiaccio e ci ha fatto piacere vedere al mattino la loro “prontezza di riflessi” nel momento in cui abbiamo deciso di rimetterle in marcia). La temperatura si è poi mantenuta costantemente intorno ai 10 gradi sotto lo zero, quando abbiamo affrontato l'autostrada numero 95 da New York fino a Washington. Sino a quel momento avevamo attraversato il Vermont, il New Hampshire, il Massachussets, il Connecticut, lo stato di New York, il New Jersey, il Delaware, il Maryland; eravamo entrati in quello che non è un vero e proprio stato ma un distretto della Columbia, cioè Washington. Inconsciamente e con grande leggerezza avevamo pensato: “Il più è passato, ora ci avviciniamo alle zone calde e la marcia diventerà più facile”. Non sapevamo cosa stava per accaderci. (fu così che quel giorno, per la prima volta, il Gianni si ritrovò a pensare che forse a Milano in redazione con i glutei sulla poltrona non si stava tanto male) Ma proseguiamo nel racconto. Lasciata la capitale nord-americana sotto un forte vento proveniente da sud, ecco le prime avvisaglie di neve. Prima dei fiocchi radi, poi sempre più fitti, poi sempre più ampi. Si stava scatenando una bufera: da venticinque anni non si registrava un fenomeno simile sulla zona. Il dramma era agli inizi. Il dilemma anche: fermarci o continuare? La pattuglia della polizia, ferma a lato strada, ci consiglia di uscire e di fermarci al primo motel. A mano a mano che procediamo le colonne in uscita sono sempre più numerose. È domenica: anche gli americani in week end sono stati presi alla sprovvista. La nostra piccola troupe tiene consiglio via radio: opinioni discordi, poi prevale il “continuiamo”. Da quel momento ha inizio il dramma dei quattro italiani al volante delle due Strada, un dramma durato 301,9 miglia, pari a 486 chilometri molti dei quali compiuti in piena notte sotto la neve, a cui si debbono aggiungere altre 185,5 miglia pari a 298 chilometri su di un'autentica lastra di ghiaccio, quindi molto di più del solito “fondo ghiacciato”. Virginia, Nord e Sud Carolina, e la parte iniziale della Georgia sono stati percorsi dalle Fiat Strada in queste condizioni. Da tener presente che nel Nord Carolina, in piena notte, abbiamo incontrato l'occhio del ciclone, proprio nella regione denominata Rocky Mount; una zona desolata, di montagna, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, dove vivono ancora oggi i cosiddetti hillbillies, cioè i “montanari”, gente nomade che spara addosso agli agenti delle tasse, si rifiuta di andare alle armi, distilla il moonshine, una specie di whisky schifoso, preparato nottetempo in caverne segrete. (praticamente Dinamite Bla) Ricordare oggi a tavolino questa impresa ci fa anche dire: “Siamo stati dei pazzi”. Le Strada erano assolutamente normali. Era stata presa un'unica precauzione: quella di sostituire la miscela antigelo, il cui limite era di – 23°, con una adatta per i – 36°. il tutto è poi stato affidato alle automobili, alle loro sospensioni, ai loro freni, alla loro tenuta di strada e alle gomme: i Pirelli P3. Ebbene alla Ritmo e alla Strada, sua diretta derivazione, si possono trovare molti nei (e avremo occasione di parlarne) ma non potremo mai criticare la tenuta di strada e il comportamento dei pneumatici Pirelli, che si sono trovati a dover lavorare in condizioni assolutamente impossibili. Con la massima modestia, ci sentiamo di affermare che forse nessun collaudatore della Fiat e della Pirelli si è venuto a trovare in condizioni tanto difficili. Non avevamo catene, né chiodi, né preparazione da rallies; eravamo nelle condizioni di un qualsiasi automobilista, in una situazione ambientale assolutamente eccezionale. Il nostro Vanni Belli ha tentato (e le pagine fotografiche che corredano queste nostre note ne sono una pallida testimonianza) di trasmettere al lettore l'immagine di quei momenti (o meglio: di quelle lunghe ore); ma, come abbiamo detto, è una “pallida testimonianza”. Come fotografare nel cuore della tormenta? Come fotografare di notte mentre la neve si accumulava centimetro su centimetro? Come fotografare mentre stavamo superando sul ghiaccio i grossi camion americani che sollevano tornado di neve, acqua e ghiaccio? Ci siamo quindi affidati alle parole, alla nostra testimonianza di giornalisti onesti che sempre hanno raccontato dal vivo e con la massima obbiettività le proprie esperienze motoristiche. Se ci chiedessero di ripetere una simile esperienza, forse rifiuteremmo, pensando anche ai pericoli reali a cui siamo andati incontro. Però oggi possiamo ben dire di aver compiuto un'impresa eccezionale con una vettura e dei pneumatici straordinari. Le cifre parlano chiaro. Abbiamo percorso 3468 chilometri in 41 ore e 42 minuti, la media generale è stata di 83.165 chilometri all'ora e quella autostradale di 89,868. Si tenga presente che la velocità massima consentita negli Stati Uniti è di 55 miglia all'ora, cioè di 88,495 chilometri orari. Una curiosità: lo stato del Wyoming ha chiesto di portare questo limite a 70 miglia: il presidente Carter ha risposto di “sì”, ponendo però come condizione il decadimento di tutti i contributi governativi di cui gode questo stato americano. Ritornando alla nostra media, possiamo dire che anche questa è stata eccezionale; in tre occasioni abbiamo avuto guai con la State Police, cioè la Polizia della Strada locale. Ci sembra interessante riportare un ultimo dato che consente di giudicare in maniera obbiettiva il modo in cui si è svolto il nostro test: il percorso da Montreal a Miami City dove la temperatura era di 26° (l'escursione termica dal momento della partenza a quello dell'arrivo è stata di 61°) è stato percorso in cinque giorni effettivi di marcia. Agli uomini e alle automobili è stato chiesto il massimo, in ogni momento ed in tutte situazioni. Inquadrato così il Raid dei 24 Paralleli organizzato da Gente Motori, parliamo ora in maniera più approfondita delle automobili e del viaggio. La Strada, come ormai coloro che ci seguono sanno, è la versione americana della Ritmo. La scocca è rimasta immutata. Le differenze estetiche sono nella mascherina anteriore e nei paraurti. Il primo impatto a Montreal è piuttosto sconcertante. Decisamente la Strada, anche se ha perso in personalità nei confronti della Ritmo, è a nostro avviso più armonica, più facile da capire. Sulle fiancate è stata applicata una modanatura in gomma, non presente sulla Ritmo, che slancia maggiormente la vettura. Vi è un fregio applicato sotto il montante anteriore che ha la utilissima funzione di evitare l'imbrattamento del vetro laterale. Sulle fiancate posteriori troviamo le luci di ingombro, e i cerchio hanno un disegno (o meglio una colorazione) diverso. All'interno le modifiche sono minime. È più elegante il rivestimento in materiale plastico delle portiere, vi sono dei poggiabraccia diversi, un cicalino avverte guidatore e passeggero di allacciare le cinture. Un'altra diversità la noteremo al primo rifornimento: il bocchettone di immissione del carburante è caratterizzato da uno sportellino a molla interno che si apre su pressione del becco della manica della pompa di benzina. Crea qualche difficoltà nei rifornimenti, perché la parte terminale della pompa di benzina ha una specie di spirale che tende a incastrarsi su questo sportellino. Meccanicamente il motore è la parte che ha subito maggiori modifiche per soddisfare i capitolati imposti dalle leggi nord-americane in fatto di antipollution. La cilindrata è di 1498 cc, che sviluppa una potenza di 64 cavalli (SAE). È quindi paragonabile alla Ritmo 65 con motore di 1300 cc. La velocità massima da noi cronometrata è di circa 174 chilometri all'ora a 5110 giri in quinta, riscontrabile anche in quarta a 5800 giri al minuto. (a me sembrano troppi 174 all'ora per una Ritmo con 64 cv) Con partenza da fermo abbiamo raggiunto la velocità di 30 miglia/ora (pari a 48,2 km/h) in 3,5 secondi; quella di 60 miglia/ora (pari a 96,5 km/h) in 12,3 secondi, e quella di 90 miglia/ora (pari a 144,8 km/h) in 38 secondi. Il viaggio prosegue: a fra poco con la seconda parte. (molte foto non sono facili da abbinare al testo, per cui farò probabilmente un terzo post con quelle che avanzano)
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