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  1. TRANSAMAZZONICA '80 Di Gianni Marin Hanno collaborato Carlo Massagrande (rilevazioni tecniche) Bruna Marin (parte turistico-illustrativa) Vanni Belli (servizi fotografici) Un'ora qualsiasi, di un giorno qualsiasi, di una settimana qualsiasi. Anche per me è l'ora del passeggio; quello che al sud si chiama “struscio” e qui, a Milano, si dice “andar per compere”. È il solito cabotaggio del sabato: i dischi, i dolci della domenica, la ricerca di qualche buon film. La zona è la stessa: corso Venezia, piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele, via Montenapoleone. E tutte le viuzze interne della “Milano-bene”, fra cui via della Spiga che sfocia in corso Venezia. All'angolo una importante agenzia di viaggi. In una delle vetrine uno stupendo manifesto pubblicitario. È un invito a visitare il Brasile attraverso una fotografia aerea d'effetto. Una specie di serpente di terra rossa che si snoda senza testa e senza coda all'infinito, in una verde distesa di foresta. Sembra quasi che un colpo di spada abbia squarciato, mettendole a nudo, le viscere rosseggianti della natura. I miei viaggi nascono tutti da stati emotivi ed era quindi logico che una fotografia del genere scatenasse la mia fantasia. Con i raid di Gente Motori abbiamo percorso un po' tutte le strade d'America, ma erano state avventure abbastanza semplici, faticose fin che si vuole, ma tutte condotte a termine in ambienti sufficientemente progrediti e civilizzati. Ma l'Amazzonia, proprio a questa regione del Brasile si riferiva la fotografia che ho descritto più sopra, era una cosa nuova, già psicologicamente carica di avventure, piena di leggende e di fantasie, “vista” solo sui libri dei grandi viaggi, ancora misteriosa benché l'uomo sia ormai giunto quasi alla boa del ventesimo secolo. Dovevo andarci con la mia solita équipe; pochissime persone affiatate, addestrate, pronte a sacrificarsi in ore e ore estenuanti di guida, pronte a reprimere gli inevitabili momenti di ira e di scoramento, quando cala la sera e si fa sentire il sonno ma non ci si può fermare, quando lo stomaco reclama il cibo ma bisogna continuare, quando si ha sete ma l'acqua pulita è finita e non ci si può fidare di quella che l'ambiente offre. L'Amazzonia si, ma quale strada scegliere? Con quali automobili andarci? In quale periodo? Cerco notizie sulla Transamazzonica, la “BR 406”, la prima grande arteria i cui lavori hanno avuto inizio nel settembre del 1970. Essa “avrebbe” dovuto collegare l'oceano Atlantico al Pacifico, unire Joao Pessoa e Recife a Rio Branco e Cruzeiro do Sul (poste ai confini con il Perù e la Bolivia) per poi proseguire in territorio peruviano. Cinquemilacinquecento chilometri complessivamente, di cui 3300 nella foresta amazzonica. Un'opera che ha richiesto la costruzione di oltre duecento ponti e che è costata qualche cosa come trecento miliardi di lire italiane. Della Transamazzonica in Europa si è favoleggiato. Si è parlato come di un'impresa titanica, di zone nuove aperte allo sfruttamento minerario, agricolo e industriale, di popolazioni tolte da un millenario abbandono. Ebbene: di quei 3300 chilometri di lavoro sovrumano, dove il lavoro nel periodo secco (da ottobre a febbraio) avveniva senza soste, ventiquattro ore su ventiquattro, dove in più punti è stato necessario stendere chilometri e chilometri di fogli in plastica per proteggere il fondo dall'erosione delle piogge, dove gli uomini addetti ai lavori hanno dovuto affrontare (e molti ci hanno rimesso la pelle) il pericolo delle malattie tropicali, il tormento degli insetti, gli attacchi degli animali feroci, l'ostilità degli “indios”: ebbene dicevo, di questi 3300 chilometri ormai terminati oggi ne “sopravvivono” soltanto duecento. È stata la grande rivincita della natura. L'uomo l'ha violentata, l'ha mutilata, ha tentato di cambiarne il ciclo e il corso, ma la natura è più forte dell'uomo: ha fortificato le radici dei grandi alberi che sprofondate nell'humus sono riemerse sul nastro stradale sconvolgendolo mentre i rami, le liane, le “barbe” della foresta tropicale invadevano tutto, cancellavano, riconquistavano quel posto che dal momento della creazione era stato loro. Il sogno del tecnico tedesco Friedrich Hopke (era alle dipendenze del Dipartimento stradale del Parà) che aveva vagheggiato una grande via di comunicazione che unisse gli estremi navigabili dei grandi affluenti di destra al Rio delle Amazzoni è così miseramente naufragato, assieme a quello di unire anche il Nord est arido e sovraffollato all'Amazzonia, ricca di acqua e scarsamente popolata. Scartata la Transamazzonica classica, dovevo cercare un'altra strada nell'ambito di quel programma, in parte molto utopistico, varato dal SUDAM, che prevedeva di costruire complessivamente oltre dodicimila chilometri di strada che avrebbero dovuto tagliare l'Amazzonia in senso longitudinale e verticale. Una di queste, realizzata da reparti dell'esercito “dovrebbe” congiungere Manaus a Santa Elena de Uaren, posto di confine fra Brasile e Venezuela. Ho scritto “dovrebbe”, poi vi spiegherò perché Si tratta insomma di una Transamazzonica nord-sud e viceversa che prosegue poi in territorio venezuelano. Il tratto venezuelano è stato tracciato dal “battaglione di ingegneria” comandato dal generale Joan Kavanang Ilaramendi di origine inglese nei lontani anni '58-'59. Lavori più seri sono stati poi compiuti nel 1972 dall'allora comandante del “battaglione di ingegneria”, tenente colonnello Cajigal, attualmente promosso generale. Ed ecco perché ho scritto “dovrebbe”. In effetti, e scrivendo questo anticipo un po' le notizie successive, ma ciò è necessario per meglio inquadrare il raid di Gente Motori, il tratto brasiliano non esiste come strada vera e propria come la si intende all'europea, mentre quello venezuelano da El Dorado (ultima prigione di Henri Charrière, l'autore di “Papillon”) è un tratturo, interrotto in più punti, quasi cancellato dalle torrenziali acque equatoriali, franato in più punti, regno sovrano di animali, foreste ed eventi naturali. Ma chi vi racconta questa storia sapeva ben poco di tutto questo. In testa avevo soltanto la foto dell'agenzia turistica vista a Milano e il richiamo di un mondo sconosciuto, tutto da scoprire. Forse una reazione naturale al mondo dei motori al quale quotidianamente mi dedico. Ebbene, vista l'impossibilità di percorrere la Transamazzonica in senso longitudinale, ho deciso di puntare su quella nord-sud prendendo come “capolinea” di partenza Caracas capitale del Venezuela, e come stazione di arrivo in Brasile il capoluogo dell'Amazzonia: Manaus. Rimaneva il problema di scegliere le automobili. Caracas Ho preso in esame i modelli delle varie Case e, senza sciovinismo da parte mia e del giornale che dirigo, ho deciso di puntare ancora una volta sulla Fiat Ritmo nella versione “65” con motore di 1300 centimetri cubici di cilindrata, lo stesso modello cioè che avevo utilizzato per il raid “Montreal-Miami” degli inizi del 1979. E ciò avveniva con uno scopo ben preciso. Come i lettori ricorderanno, allora vennero superate condizioni meteorologiche infernali che avevano raggiunto il loro culmine nei trentacinque gradi sotto lo zero e nella bufera di neve (da vent'anni non se ne verificava una di simile) da Washington in giù, nel Nord Carolina, nel Sud Carolina, nella Georgia. Andando in un Paese come l'Amazzonia avevamo la possibilità di sfruttare condizioni ambientali completamente opposte, temperature che già sulla carta si annunciavano di ben quaranta-quarantacinque gradi sopra lo zero, la possibilità di incontrare i famosi acquazzoni violentissimi dell'Equatore e a cui si poteva aggiungere, in contrapposizione alle veloci autostrade canadesi, il tormento rappresentato da strade in terra battuta (e che credevo fossero soltanto tali), quindi tanta polvere e molti sassi. Da tutto questo poteva quindi nascere un confronto estremamente interessante e un giudizio su di una vettura che, nata con i galloni dell''Auto anni '80', ha avuto un avvio difficile, almeno sul mercato italiano. Ho scelto dalla produzione normale due Fiat Ritmo nell'ultima versione, cioè quelle già dotate di servofreno e di ventilatore centrifugo che assicura un maggior silenzio e una maggiore portata d'aria. Vi ho fatto apportare qualche leggera modifica; piccole cose, mentre tante altre che sarebbero state necessarie date le condizioni delle strade sono rimaste soltanto nel regno dei sogni e dei desideri. Ho fatto sostituire le molle anteriori delle sospensioni, facendo montare quelle delle Ritmo 75 con cambio automatico, vettura che essendo più pesante ha richiesto questa modifica. Le due “Ritmo Amazzonia” (così le ho battezzate) erano più alte di circa due centimetri. È stato anche aumentato lo spessore del tampone in gomma degli ammortizzatori (ad anello interno) in modo da guadagnare in altezza circa 25 millimetri. Due sole le protezioni vere e proprie: una anteriore, una specie di slitta in alluminio dello spessore di cinque millimetri che difendeva motore, cambio e parte delle sospensioni (era stata ancorata alla traversa anteriore e alla scocca); una posteriore in lamiera d'acciaio con interposto materiale isolante del tipo Septun. Per le gomme avevamo ancora una volta optato per i Pirelli P3 tubeless ma con camera d'aria aggiunta per evitare l'afflosciamento del pneumatico in caso di buche e quindi urti e ammaccature del cerchione. Misura 165/70 SR 13, cioè più larghi dei 145 SR 13. Il diametro dei due tipi di pneumatici è uguale, ma essendo più larga la superficie d'appoggio, il peso veniva meglio ripartito e si guadagnava naturalmente in tenuta di strada. In conclusione posso dire che per le auto si è trattato più di una messa a punto che di una preparazione tipo “Sahara” o fuoristrada, mentre per le gomme ci si è avvalsi ancora una volta di un modello qualsiasi, montato normalmente in serie, mentre, giudicando con il senno di poi, molto più opportune sarebbero state le gomme del tipo tassellato. La Publimais di Torino ha provveduto come al solito ad “addobbare” con le nostre scritte le due Ritmo 65, che se ne sono partite via mare, per Caracas, punto di partenza della “Transamazzonica '80”, il nuovo raid di Gente Motori. Caracas Venti e più giorni di viaggio e poi lo sbarco a Caracas con il quasi contemporaneo arrivo dei quattro avventurosi, entusiasti, ben preparati fisicamente e psichicamente ma ingenui, perché nessuno di essi conosceva esattamente lo stato delle strade. Una situazione che si sarebbe rinnovata continuamente, perché chiedere informazioni agli abitanti sulle condizioni delle strade è sempre stato perfettamente inutile. Le risposte erano tutte fantasiose, approssimative e il più delle volte, anche per gli abitanti delle zone attraversate, soltanto “per sentito dire”. A Caracas “consiglio di guerra”. Dobbiamo stabilire le tappe, tenendo presenti i pochi centri abitati che dovremo attraversare e le condizioni ambientali con autentici pericoli per la nostra incolumità. Come, ad esempio, l'attraversamento della riserva degli indios Waimiri Abonari, 325 chilometri prima di Manaus, per una lunghezza di 120 chilometri, tuttora selvaggi e il cui ingresso e uscita sono piantonati da reparti dell'esercito che intervengono nel caso in cui questi rischiosi 120 chilometri non vengano percorsi in un tempo ragionevole. Normalmente le auto vengono fatte marciare in colonna e viaggiano a finestrini completamente chiusi. Gli indios Waimiri Abonari hanno già “fatto fuori” non meno di trecento bianchi che si erano azzardati ad attraversare la zona. L'ultimo, mi raccontavano, in un modo piuttosto originale: costringendolo a mangiare una banana dietro l'altra. È morto per ingozzamento e asfissia. Cinque le tappe presumibili: da Caracas a Porto Ordaz, da Porto Ordaz a La Clarita (Les Clarines), da La Clarita (Les Clarines) a Santa Elena de Uaren, punto di confine fra Venezuela e Brasile, da Santa Elena de Uaren a Boa Vista e infine da Boa Vista a Manaus, una tappa lunghissima quest'ultima di oltre ottocento chilometri che ci costringerà a rimanere al volante per quindici ore e cinquantatré minuti primi, su di un tracciato impossibile anche alle capre ma su cui, a parte gli indios già citati, non esiste praticamente alcun villaggio con le caratteristiche per essere definito tale che ci consentisse una sosta con un minimo margine di sicurezza. Caracas: dalla capitale del Venezuela ha avuto inizio l'avventura amazzonica dei nostri quattro inviati sorretti dalla forza più grande, quella dell'incoscienza. È la metropoli che ha visto muovere i nostri primi passi con le due Ritmo 65 che avevamo trovato in ottimo stato dopo circa un mese di traversata atlantica. C'era un solo neo: erano state rubate le radio per le comunicazioni dirette che montiamo sempre per evitare di perderci. Le abbiamo ricomperate: poco male. Tutto il resto è a posto e Carlo Massagrande inizia il suo doppio lavoro: pilota dell'auto color rosso dall'inizio alla fine, nonché rilevatore di dati, di situazioni, di appunti tecnici. Con una meticolosità impressionante. I suoi primi rilievi sono: i pieni di carburante, la pressione delle gomme, il funzionamento delle radio, la temperatura esterna, il grado di umidità atmosferico, ecc. ecc. Proseguirà poi con lo stato delle strade, i tempi di percorrenza, le ore di sosta per foto e altro, le medie, le distanze da... e via dicendo. Con lui viaggerà Vanni Belli, un'habitué paziente e preciso di queste nostre avventure; con me mia moglie, alla quale è affidata la contabilità, la dispensa di bordo, le annotazioni di viaggio su cui poi nasceranno le didascalie delle fotografie e queste mie note. Caracas Dedichiamo due giorni alla parte fotografica di Caracas, capitale di questo immenso paese che compre una superficie di 912.000 chilometri quadrati ma sul quale abitano soltanto dieci milioni e mezzo di persone. Caracas, con i suoi due milioni di abitanti è una città allucinante. Nata dalle rovine di due terremoti, quello del 1755 e quello del 1812, Caracas è diventata una megalopoli. È stato costruito un aeroporto ai bordi del Mar dei Caraibi, che però è stato quasi subito distrutto per lasciar posto ad un altro, fantascientifico. Sono stati abbattuti dei grattacieli per costruirne altri ancora più alti, è stato realizzato nel cuore della città il Centro Bolivar, due grattacieli gemelli uniti da un vastissimo fabbricato adibito a uffici sotto il quale scorre l'Avenida Bolivar. Il centro storico, quello del passeggio, delle boutique, dei negozi denominato Saban Grande, non esiste quasi più: è stato smantellato per lasciar posto ad altre strade e ad altri grattacieli. Le strade sopraelevate che si intersecano, si avviluppano l'una con l'altra non si contano. Dall'Hotel Tamanaco, dove alloggiavamo nei giorni di sosta, giunge un continuo rumore di automobili. Sono migliaia, decine di migliaia di vetture continuamente in movimento a qualsiasi ora del giorno e della notte. D'altronde il problema del prezzo della benzina non esiste: la normale dal bassissimo numero di ottani (60/65) costa 30,26 lire al litro; quella Super 69,30 lire al litro. Il gasolio ha un prezzo medio di 42,75 lire al litro. È la civiltà del petrolio in tutta la sua esplosione, dato che non bisogna dimenticare che la massima ricchezza venezuelana è costituita proprio dal petrolio con 116.820.000 tonnellate estratte (ultimo dato ufficiale) nel 1977, che pongono il Venezuela al quinto posto fra i grandi Paesi petroliferi. Esso viene estratto dai bacini di Maracaibo, Falcòn, Barinas e Maturìn. Ma di fronte a questa esplosione di ricchezza non bisogna rimanere abbagliati. Bisogna vedere anche l'altra faccia di questa città. Caracas - Ai confini della civiltà Quella delle “bidonville”, le stesse che si trovano a Rio de Janeiro e in altri Paesi sudamericani dove vengono chiamate “favelas” e che qui in Venezuela sono battezzate “los barrios”. Quello di Sabana Grande è immenso. Se lo si osserva dal basso sembra un fitto grappolo di case lassù sulla collina: di giorno mostra tanti buchi neri al posto delle finestre, di notte è un luccichio di tanti lumini traballanti. Perché a Sabana Grande come negli altri “barrios” la luce elettrica non esiste, come non esistono l'acqua e i servizi igienici. È questo contrasto tra i grattacieli di Caracas moderna e la povertà dei “barrios” che lascia tutti perplessi. Ma il viaggio sta per cominciare. È ora di iniziare a raccontarvi la nostra avventura e quella delle due Ritmo 65. Fine prima parte
  2. Ed eccoci con un altro raccontino fresco fresco. Cioè, si fa per dire. Prima di tutto, fresco fresco non è, perchè i fatti sono avvenuti 45 anni fa. Poi, fresco fresco non è perchè non l'ho messo giù in questi giorni. Lo impacchettai anni fa*, prima della lunga pausa che mi presi perchè impegnato in altre cose. Nel ricominciare a raccontare queste vicende, mi trovai fra le mani per prime quella della Delta che avete già letto, e quella della Ritmo in Amazzonia che ho finito mezz'ora fa. Poi mi ricordai di questo, e andando a cercarlo lo trovai già "ritirato" nella cartella dedicata alla Fiat Ritmo, mentre i cosiddetti "lavori in corso" li conservo in un folder apposito. Vederlo lì mi fece pensare di averlo già postato tanti anni fa, e quindi mi buttai su Delta e Ritmo-Amazzonia. E invece, quando L'informatore ha riportato l'elenco dei raid già pubblicati, mi son reso conto di averlo trascritto e messo via, durante la "lunga pausa". Quindi... fresco fresco per me non è, ma per voi sì. Inoltre, lo definirei tale perchè... in quei giorni del 1979 Marin si trovò alle prese con un... leggero freschino. * ai tempi avevo confezionato un testo di tipo leggermente differente rispetto a quelli di questi giorni. Troverete qualche mio buffo commento, inserito nei punti in cui Marin prendeva una papera, oppure la scena mi faceva sorridere. Basta, vi ho ammorbato a sufficienza. IL RAID DEI 24 PARALLELI - DAL CANADA ALLA FLORIDA CON DUE FIAT STRADA di Gianni Marin in collaborazione con Carlo Massagrande fotografie Vanni Belli La traversata atlantica sta per terminare. Il DC10 dell'Alitalia si avvicina all'isola di Terranova; l'Oceano è in molti punti ghiacciato, qua e là navigano degli imponenti iceberg. Ecco lo stretto di Caboto, il golfo di San Lorenzo, Quebec. La voce della hostess: “Ci apprestiamo ad atterrare a Montreal. La temperatura a terra è di meno venticinque gradi centigradi”. Un brivido corre lungo la schiena. Pensiamo di aver frainteso, ma basta uno sguardo, che si scontra con quello degli altri passeggeri, per toglierci ogni speranza. A Montreal sono proprio 25° sotto zero. Ce ne rendiamo subito conto quando prendiamo posto sulle navette che collegano l'aereo con l'interno dell'aeroporto. Baveri alzati, colbacchi, fiato che si condensa in nuvolette simili alle folate di una pipa ben attizzata. “E' un freddo record”, dice il tassista che ci accompagna all'albergo. E dura da diversi giorni. “Meglio così”, continua, “fin che fa freddo non nevica”. La situazione insomma non è delle più allegre. Ci troviamo a Montreal per compiere uno dei nostri raid; ma le attrezzature se non sono proprio quelle di tutti i giorni (l'unica precauzione è stata quella di utilizzare delle tute termiche della ditta Benning di Thiene e degli scarponcini Lotto) certamente non sembrano le più adatte per una situazione così esasperata. Siamo qui per provare la Fiat Strada che il 6 gennaio la Fiat USA ha presentato a Las Vegas alla stampa locale. Gente Motori vi ha già mostrato la vettura in forma statica. Avevamo apprezzato le modifiche estetiche, avevamo giudicato gli aggiornamenti tecnici alle normative di antipollution e di sicurezza americane. Ma volevamo vederle e soprattutto provarle. E' così nato il “Raid dei 24 Paralleli”, da Montreal a Miami, per un totale di 3500 chilometri. Almeno sulla carta. E ancora sulla carta avevamo pensato di andare dal freddo al caldo, dall'inverno di Montreal al “quasi-estate” di Miami; il tutto però, come l'eroe manzoniano, “con judicio”. Invece, alla prova dei fatti, questo raid si è rivelato il più duro e probante test fra tutti quelli portati a termine da Gente Motori. I – 25° diurni di Montreal sono diventati 35 durante la prima tappa nelle ore serali e di primo mattino (le due Strada sono rimaste parcheggiate all'addiaccio e ci ha fatto piacere vedere al mattino la loro “prontezza di riflessi” nel momento in cui abbiamo deciso di rimetterle in marcia). La temperatura si è poi mantenuta costantemente intorno ai 10 gradi sotto lo zero, quando abbiamo affrontato l'autostrada numero 95 da New York fino a Washington. Sino a quel momento avevamo attraversato il Vermont, il New Hampshire, il Massachussets, il Connecticut, lo stato di New York, il New Jersey, il Delaware, il Maryland; eravamo entrati in quello che non è un vero e proprio stato ma un distretto della Columbia, cioè Washington. Inconsciamente e con grande leggerezza avevamo pensato: “Il più è passato, ora ci avviciniamo alle zone calde e la marcia diventerà più facile”. Non sapevamo cosa stava per accaderci. (fu così che quel giorno, per la prima volta, il Gianni si ritrovò a pensare che forse a Milano in redazione con i glutei sulla poltrona non si stava tanto male) Ma proseguiamo nel racconto. Lasciata la capitale nord-americana sotto un forte vento proveniente da sud, ecco le prime avvisaglie di neve. Prima dei fiocchi radi, poi sempre più fitti, poi sempre più ampi. Si stava scatenando una bufera: da venticinque anni non si registrava un fenomeno simile sulla zona. Il dramma era agli inizi. Il dilemma anche: fermarci o continuare? La pattuglia della polizia, ferma a lato strada, ci consiglia di uscire e di fermarci al primo motel. A mano a mano che procediamo le colonne in uscita sono sempre più numerose. È domenica: anche gli americani in week end sono stati presi alla sprovvista. La nostra piccola troupe tiene consiglio via radio: opinioni discordi, poi prevale il “continuiamo”. Da quel momento ha inizio il dramma dei quattro italiani al volante delle due Strada, un dramma durato 301,9 miglia, pari a 486 chilometri molti dei quali compiuti in piena notte sotto la neve, a cui si debbono aggiungere altre 185,5 miglia pari a 298 chilometri su di un'autentica lastra di ghiaccio, quindi molto di più del solito “fondo ghiacciato”. Virginia, Nord e Sud Carolina, e la parte iniziale della Georgia sono stati percorsi dalle Fiat Strada in queste condizioni. Da tener presente che nel Nord Carolina, in piena notte, abbiamo incontrato l'occhio del ciclone, proprio nella regione denominata Rocky Mount; una zona desolata, di montagna, un posto dimenticato da Dio e dagli uomini, dove vivono ancora oggi i cosiddetti hillbillies, cioè i “montanari”, gente nomade che spara addosso agli agenti delle tasse, si rifiuta di andare alle armi, distilla il moonshine, una specie di whisky schifoso, preparato nottetempo in caverne segrete. (praticamente Dinamite Bla) Ricordare oggi a tavolino questa impresa ci fa anche dire: “Siamo stati dei pazzi”. Le Strada erano assolutamente normali. Era stata presa un'unica precauzione: quella di sostituire la miscela antigelo, il cui limite era di – 23°, con una adatta per i – 36°. il tutto è poi stato affidato alle automobili, alle loro sospensioni, ai loro freni, alla loro tenuta di strada e alle gomme: i Pirelli P3. Ebbene alla Ritmo e alla Strada, sua diretta derivazione, si possono trovare molti nei (e avremo occasione di parlarne) ma non potremo mai criticare la tenuta di strada e il comportamento dei pneumatici Pirelli, che si sono trovati a dover lavorare in condizioni assolutamente impossibili. Con la massima modestia, ci sentiamo di affermare che forse nessun collaudatore della Fiat e della Pirelli si è venuto a trovare in condizioni tanto difficili. Non avevamo catene, né chiodi, né preparazione da rallies; eravamo nelle condizioni di un qualsiasi automobilista, in una situazione ambientale assolutamente eccezionale. Il nostro Vanni Belli ha tentato (e le pagine fotografiche che corredano queste nostre note ne sono una pallida testimonianza) di trasmettere al lettore l'immagine di quei momenti (o meglio: di quelle lunghe ore); ma, come abbiamo detto, è una “pallida testimonianza”. Come fotografare nel cuore della tormenta? Come fotografare di notte mentre la neve si accumulava centimetro su centimetro? Come fotografare mentre stavamo superando sul ghiaccio i grossi camion americani che sollevano tornado di neve, acqua e ghiaccio? Ci siamo quindi affidati alle parole, alla nostra testimonianza di giornalisti onesti che sempre hanno raccontato dal vivo e con la massima obbiettività le proprie esperienze motoristiche. Se ci chiedessero di ripetere una simile esperienza, forse rifiuteremmo, pensando anche ai pericoli reali a cui siamo andati incontro. Però oggi possiamo ben dire di aver compiuto un'impresa eccezionale con una vettura e dei pneumatici straordinari. Le cifre parlano chiaro. Abbiamo percorso 3468 chilometri in 41 ore e 42 minuti, la media generale è stata di 83.165 chilometri all'ora e quella autostradale di 89,868. Si tenga presente che la velocità massima consentita negli Stati Uniti è di 55 miglia all'ora, cioè di 88,495 chilometri orari. Una curiosità: lo stato del Wyoming ha chiesto di portare questo limite a 70 miglia: il presidente Carter ha risposto di “sì”, ponendo però come condizione il decadimento di tutti i contributi governativi di cui gode questo stato americano. Ritornando alla nostra media, possiamo dire che anche questa è stata eccezionale; in tre occasioni abbiamo avuto guai con la State Police, cioè la Polizia della Strada locale. Ci sembra interessante riportare un ultimo dato che consente di giudicare in maniera obbiettiva il modo in cui si è svolto il nostro test: il percorso da Montreal a Miami City dove la temperatura era di 26° (l'escursione termica dal momento della partenza a quello dell'arrivo è stata di 61°) è stato percorso in cinque giorni effettivi di marcia. Agli uomini e alle automobili è stato chiesto il massimo, in ogni momento ed in tutte situazioni. Inquadrato così il Raid dei 24 Paralleli organizzato da Gente Motori, parliamo ora in maniera più approfondita delle automobili e del viaggio. La Strada, come ormai coloro che ci seguono sanno, è la versione americana della Ritmo. La scocca è rimasta immutata. Le differenze estetiche sono nella mascherina anteriore e nei paraurti. Il primo impatto a Montreal è piuttosto sconcertante. Decisamente la Strada, anche se ha perso in personalità nei confronti della Ritmo, è a nostro avviso più armonica, più facile da capire. Sulle fiancate è stata applicata una modanatura in gomma, non presente sulla Ritmo, che slancia maggiormente la vettura. Vi è un fregio applicato sotto il montante anteriore che ha la utilissima funzione di evitare l'imbrattamento del vetro laterale. Sulle fiancate posteriori troviamo le luci di ingombro, e i cerchio hanno un disegno (o meglio una colorazione) diverso. All'interno le modifiche sono minime. È più elegante il rivestimento in materiale plastico delle portiere, vi sono dei poggiabraccia diversi, un cicalino avverte guidatore e passeggero di allacciare le cinture. Un'altra diversità la noteremo al primo rifornimento: il bocchettone di immissione del carburante è caratterizzato da uno sportellino a molla interno che si apre su pressione del becco della manica della pompa di benzina. Crea qualche difficoltà nei rifornimenti, perché la parte terminale della pompa di benzina ha una specie di spirale che tende a incastrarsi su questo sportellino. Meccanicamente il motore è la parte che ha subito maggiori modifiche per soddisfare i capitolati imposti dalle leggi nord-americane in fatto di antipollution. La cilindrata è di 1498 cc, che sviluppa una potenza di 64 cavalli (SAE). È quindi paragonabile alla Ritmo 65 con motore di 1300 cc. La velocità massima da noi cronometrata è di circa 174 chilometri all'ora a 5110 giri in quinta, riscontrabile anche in quarta a 5800 giri al minuto. (a me sembrano troppi 174 all'ora per una Ritmo con 64 cv) Con partenza da fermo abbiamo raggiunto la velocità di 30 miglia/ora (pari a 48,2 km/h) in 3,5 secondi; quella di 60 miglia/ora (pari a 96,5 km/h) in 12,3 secondi, e quella di 90 miglia/ora (pari a 144,8 km/h) in 38 secondi. Il viaggio prosegue: a fra poco con la seconda parte. (molte foto non sono facili da abbinare al testo, per cui farò probabilmente un terzo post con quelle che avanzano)
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